La nota critica che segue, redatta in occasione della presentazione della silloge poetica “Le cose” (ed. Tabula Fati) a Villa Sirena, il 30 novembre 2017, è stata pubblicata, per interessamento dell’autore, sulla Rivista di poesia “Frequenze poetiche”, n° 5, Anno II, gennaio 2018.

http://frequenzepoetiche.altervista.org/nicoletta-fazio-le-cose-vito-moretti/

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Non stupisce che Vito Moretti dedichi un libro alle “cose”, visto che il suo sguardo poetico ha sempre abbracciato e accarezzato con affetto e delicatezza le cose, le piccole cose, quotidiane e amate, che appartengono alla sua dimensione di poeta, di scrittore e di uomo. Del resto per la poesia dell’autore sanvitese Giovanni Tesio ha parlato di “fenomenologia sentimentale”[1], e in questa fenomenologia, in questa rappresentazione emotiva del mondo in cui Vito Moretti vive, tra nostalgia e malinconia, un posto privilegiato occupano le cose.

Nella postfazione e nella quarta di copertina di questa nuova raccolta, l’autore ci  indica senza mezzi termini cosa sono “le cose” e ci rende manifesta soprattutto la differenza tra cose ed oggetti. Le cose raccontano la costruzione della nostra vita, diventano espressione efficace della nostra identità e del nostro quotidiano. Gli oggetti, di per sé amorfi, inanimati, freddi, diventano cose col tempo, perché invecchiano con noi e assorbono parte della nostra vita, facendosi, quindi, ricordo, memoria, ruga, lacrima, carezza. Le cose diventano parte di noi stessi, hanno il potere di ricordare e di rievocare, sono testimoni della nostra esistenza, anzi, sono esse stesse esistenza.

Con questa dichiarazione esplicita il poeta ci regala la chiave di lettura della raccolta e ci fa intendere anche che tale rivelazione – la distinzione tra oggetti e cose, appunto – non è la meta ultima della silloge, ma il punto di partenza, dal quale si dipanano ulteriori riflessioni.

Innanzitutto bisogna dire che questo è un libro dalla doppia anima: poetica, da un lato, filosofica, dall’altro, due anime che, però, si uniscono, si fondono, divenendo un tutt’uno. Le due dimensioni, del resto, convivono in Vito Moretti, che ha una formazione e un bagaglio culturale non solo letterario, ma anche filosofico. La poesia è un abito, una veste finemente orlata che copre e riveste un’architettura solida e complessa di pensieri, studi, ragionamenti e riflessioni.

Il riferimento alla filosofia è supportato, nel testo, dal ricorso frequente, in epigrafe, a diverse citazioni (che quasi “puntellano” le poesie) di filosofi antichi, moderni e contemporanei. Tra questi ultimi viene citato Remo Bodei, che ha trattato il rapporto oggetti/cose nel suo libro “La vita delle cose”, dove parla, appunto, delle cose che sono depositarie di significati affettivi, di senso, a fronte di una cultura, di una società, che le ha svuotate di significato, le ha depauperate di ogni valore, una società in cui vige su tutto la legge dell’usa e getta.

Ancor prima di Bodei, in verità, Rainer Maria Rilke aveva avviato un discorso sulle cose, intuendo quanto l’essenza dell’uomo e quella delle cose fossero intimamente legate e denunciando la perdita di valore e di senso degli oggetti, la perdita del valore intrinseco delle cose: “Il mondo si rattrappisce. Lo stesso fanno le cose” scrive nel 1925, sottolineando come l’umanità dell’uomo e la cosità delle cose siano oramai dissolte a fronte della produzione meccanica e dei tecnicismi. “Per i nostri avi, una casa, una fontana, una torre loro familiare, un abito posseduto, il loro mantello, erano ancora qualcosa di infinitamente di più che per noi, di infinitamente più intimo; quasi ogni cosa era un recipiente in cui rintracciavano e conservavano l’umano” prosegue, nello stesso scritto, il poeta tedesco, evidenziando lo scarto con la propria epoca: la modernità, per Rilke, partorisce oggetti puramente funzionali, senz’anima e senza memoria. Le cose, un tempo cresciute nella calma, nella ponderazione, nella cura artigiana, scompaiono rapidamente soppiantate dagli oggetti amorfi della manipolazione tecnica.

Ma torniamo alla raccolta poetica “Le cose”. E’ importante, per me, soffermarsi sugli eserghi che sono all’inizio del libro: qui Vito Moretti cita se stesso, riportando alcuni versi tratti da Principia, e cita Jorge Luis Borges, riprendendo dei versi dalla celebre poesia “Le cose”, tratta da Elogio dell’ombra.

Cosa ci suggerisce questa scelta operata dall’autore? Ci dice sostanzialmente due cose: la prima è che il libro che abbiamo tra le mani si inserisce nel solco della poetica di Vito Moretti, non crea una frattura, non è in contrasto con la sua produzione precedente. Anzi, citando la sua raccolta poetica immediatamente anteriore a “Le cose”, l’autore ci rivela anche che in Principia sono già in nuce, sono già presenti e visibili degli elementi, dei concetti, che verranno poi ripresi e sviluppati nell’opera attuale; il richiamo a Borges, invece, anticipa la riflessione esistenziale sull’uomo, sulla sua precarietà, sul tempo che passa, che è uno dei temi dominanti di questa raccolta.

Ha ragione Giancarlo Giuliani nell’affermare che “quelli di Vito Moretti sono versi carichi di potenzialità espansiva, oltre che espressiva”. Una potenzialità espansiva che parte innanzitutto da quella poetica delle piccole cose (cara all’autore), nella quale trovano posto e vengono nominate le cose (il nome, l’atto di nominare è per Vito Moretti un’operazione importantissima, che posiziona nello spazio e nel tempo l’oggetto, la persona, il fatto, dona loro vita) che appartengono e rimandano al mondo di memorie e di affetti dell’autore stesso, cose che sono simbolo della propria vicenda personale e che il poeta affida alla poesia affinché sopravvivano. Così il gelsomino, le rose, il profumo del vino bollito e delle arance, il nespolo, la collina, la cuccia del cane, la sciarpa, vanno a comporre un paesaggio intimo nel quale “la casa è la memoria che vi abita”[2]. Ogni cosa è tale non per sé, ma per il suo valore intrinseco, perché carica di significati, di memoria, di un valore e di un senso.

Le cose traghettano l’anima di chi le possiede o le ha possedute, emanano l’umanità di ciascuno, sono il simbolo dei legami, delle storie, dei transiti di ogni uomo. Le cose sono ganci tra persona e persona, tra fatti, tra sentimenti, tra passato, presente e futuro, in un’ideale staffetta che attraversa lo spazio e il tempo. Le cose hanno una voce, un richiamo, hanno un linguaggio che ciascuno interpreta a seconda della propria sensibilità e della propria storia, anche in base al rapporto con la cosa stessa.

Accade, poi, che in Vito Moretti le “cose” si dilatino, investendo una realtà più ampia, la società in cui viviamo, e abbracciando la storia non solo personale, ma anche collettiva. La Storia e la società odierna emergono con tutte le loro contraddizioni e le loro macchie, le loro iniquità e ingiustizie. Le cose diventano, dunque, segni per indagare e per ricercare il vero, il bello e il buono dei giorni, ma anche per rintracciare la menzogna, la non autenticità (l’intera raccolta potrebbe definirsi una lunga ricerca di senso e di verità).

Su questi paesaggi interiori proiettati nei versi c’è spesso la presenza dell’acqua, che compare in tante forme, più spesso come pioggia,  temporali, scrosci, oltre che come mare, ruscelli, rivoli, ma anche come mistura di acqua e terra, come fango. Mentre il mare è indice sempre di serenità (forse perchè appartiene all’orizzonte personale del poeta, che lega dunque al mare il periodo dell’infanzia e della giovinezza), la pioggia ne “Le cose” ha, secondo me, una doppia valenza: da una parte lava, purifica, riscatta, dall’altra diventa metafora del logorio del tempo, del suo inesorabile scorrere, di quel panta rei che porta via tutto, cose e persone. La pioggia è simbolo della nostra stessa deperibilità. “Gioca a rodere il tempo…”[3] scrive Vito Moretti, con la consapevolezza di chi sa che poche cose sopravvivono al tempo beffardo e, se resistono, è perché restano soprattutto dentro di noi. A proposito della caducità e della fragilità della nostra esistenza, è significativo come nel libro ricorrano spesso verbi come scivolare, svanire, smarrire, lasciare, che sia come suono che come senso rendono la fluidità dell’esistenza, la “liquidità” – potremmo dire, usando un termine attualissimo – di ogni cosa, ma anche l’incapacità, l’impotenza umana di afferrare la conoscenza, di avere risposte a tutto.

“Ho stupore delle cose…”[4] afferma Vito Moretti. Credo proprio che questa sia la risposta del poeta, l’antidoto allo scorrere del tempo, alla realtà piena di inquietudini e di smarrimenti: lo stupore, la meraviglia che bisogna riservare alle “cose”, piccole o grandi che siano, lo stupore che, attraverso la poesia, permette di arrivare là dove la ragione non riesce, abbandonandosi al mistero, all’emozione. Il linguaggio delle cose autentiche ci rivela, in fin dei conti, il senso e l’essenza della vita stessa, aprendo nuovi cieli e nuove prospettive, nuove conoscenze. Un nuovo domani. Perché, scrive Vito Moretti in Principia, “poi rimane lo sguardo sulle cose, quel niente che pure ci dà memoria, il rosso di ogni mondo”[5].

                                                                                            Nicoletta Fazio

 

[1]    Si veda, a proposito, la premessa a VITO MORETTI, La case che nen ze chiude, Tabula Fati, Chieti 2013, pag. 11.

[2]   Così nella lirica “Ogni cosa, tutto”, in “Le cose”, pag. 53.

[3]   In “Per me l’anno”, pag. 137.

[4]   In “Era così”, pag. 139.

[5]   V. MORETTI, Ho riletto Sbarbaro, i suoi…, in Principia, pag. 57.

LA LUMINOSA IMPERFEZIONE DEL BUIO
Intervista a Vito Moretti, autore del romanzo “Le ombre adorne”

L’intervista è stata pubblicata nel mese di ottobre 2016 sul quotidiano “Il Giornale d’Abruzzo”: http://ilgiornaledabruzzo.it/2016/10/03/la-luminosa-imperfezione-del-buio-intervista-vito-moretti/

Con il romanzo “Le ombre adorne”, edito dalla casa editrice Tabula Fati, Vito Moretti ha vinto il Premio letterario di narrativa edita “Vittoriano Esposito”, nella sezione “migliore autore abruzzese”. La cerimonia di premiazione si è svolta domenica 25 settembre a Celano. Scrittore, poeta in lingua e in dialetto, saggista, Vito Moretti è una delle voci più autentiche e rilevanti della letteratura abruzzese contemporanea.
Ci salutiamo con la gioia di due amici che si rivedono dopo tanto tempo, non nascondendo, nei gesti e nelle parole, la consuetudine di un’amicizia in verità giovane, ma spontanea, sincera e ricca di quelle sfumature profonde e intense che solo le ragioni del cuore sanno pronunciare e rendere evidenti. I suoi occhi sorridenti e curiosi trasmettono un’umanità bonaria e indulgente, un’ironia sagace, e le parole scorrono in fretta, senza seguire il canovaccio delle domande. Parole di un pomeriggio settembrino in un caffè, discorsi senza tempo che la mente appunta più in fretta della biro.

Com’è nata l’idea di questo romanzo?
Sicuramente c’è un filo che lega “Le ombre adorne” a “Il colore dei margini”, la mia raccolta di racconti edita nel 2014. Nei racconti, infatti, avevo proposto una carrellata sui mali del mondo contemporaneo e già allora avevo annotato come uno di questi fosse quello che Berto chiamava “il male oscuro” del Novecento. Nel romanzo, il protagonista, Diego, è un uomo che ha avuto una vita tranquilla, un amore ricambiato, un rapporto familiare normalissimo; ecco che, però, di colpo, si trova ad essere da solo. Questa sua condizione di solitudine si trasforma in una patologia psicologica. Intorno a questa malattia, a questo disagio, ho costruito l’intera vicenda.

Il titolo dice tanto di ogni libro: perché “Le ombre adorne”?
Le ombre sono le ombre della malattia, del disagio. Ma sono anche “adorne” perché credo che ogni uomo abbia la possibilità di uscire alla luce, che il buio non sia mai eterno, che ci sia il modo di redimersi, di ritrovare la gioia perfino nelle situazioni più difficili per riscoprire il bello della vita. Sono convinto che anche il muro più solido abbia una fenditura dalla quale si intravede la luce.

La storia è costruita come romanzo nel romanzo, con una narrazione a cornice talvolta talmente lieve e impercettibile da creare un vero e proprio incastro di anime tra personaggi lontani e sconosciuti a un tempo.
C’è un gioco tra due mondi: Diego, attraverso i racconti di una sconosciuta, rivive le vicende con la moglie, ricorda la propria infanzia, gli amori, i momenti particolari della sua vita. In qualche modo, tramite un misterioso quaderno, il romanzo di lei si intreccia con quello di lui e i due racconti diventano un tutt’uno, una sola storia.

Nel romanzo la lettura diventa strumento terapeutico, più che la scrittura. Leggere è aprirsi al
mondo, è ascoltare l’altro, è lasciare il proprio io per volgere gli occhi in un’altra direzione.
Sembra quasi che l’autore voglia indicare nella lettura la chiave per uscire dall’isolamento,
dalla solitudine…
E’ vero. Io ho sempre creduto nel ruolo fondamentale, formativo e culturale, della lettura. Per me, in generale, la letteratura salva, salva la bellezza delle parole, degli strumenti che trasmettono i concetti e la possibilità di redimersi. Perciò la bellezza salva, quando si fa tramite, attraverso le parole, di mondi possibili.

L’intera storia potrebbe leggersi come un viaggio alla ricerca di sé da parte del protagonista, una ricerca sì personale, ma anche universale, sull’essere umano. Questa indagine porta Diego a interrogarsi su se stesso, sulla fragilità umana, sul senso dell’amore, del dolore, della vita.
Credo forse di essere avvantaggiato perché vengo dalla poesia. Io mi interrogo e mi sono sempre interrogato attraverso la poesia. La poesia, per me, ha una funzione illuminante, si interroga, chiede, anche se non sempre può arrivare a delle conclusioni, non sempre può fornire delle risposte. Nel romanzo rifletto sulla morte, sulla vita, sull’amore… In tal senso, un ruolo importantissimo lo svolge il medico, che sprona e incoraggia il protagonista.

Possiamo dire, quindi, che il medico sia il tuo personaggio preferito?
Diego è un personaggio che mi appassiona perché soffre e torna alla vita attraverso una personale tribolazione. Però, in effetti, se dovessi dire a quale personaggio somigli, direi al medico, per la sua filosofia di fondo, per il carattere, per la sua saggezza interrogativa. Chi si interroga sulle cose ha in sé una saggezza che è ammirabile e che lo porta ad essere già a metà strada verso la verità.

Anche in questo romanzo la componente lirica occupa un ruolo di primo piano. Dunque, il Vito Moretti narratore non prescinde dal Vito Moretti poeta. C’è differenza nel tuo accostarti alla parola poetica rispetto alla narrazione in prosa?
No, non c’è nessuna differenza. Io sento la densità della parola allo stesso modo, sia che scriva una poesia sia la pagina di un racconto. Dante Maffia, durante la cerimonia del Premio “Vittoriano Esposito”, ha sottolineato come la carica lirica della mia scrittura sia evidente anche nelle opere di saggistica e di critica letteraria. Credo che nessuno di noi possa svestirsi dell’abito che indossa: e un poeta rimane se stesso sempre.

Nicoletta Fazio

Relazione scritta per la presentazione del libro di racconti “Il colore dei margini” di Vito Moretti (edizione Tabula Fati), svoltasi il 21 maggio 2015 a Lanciano. La nota è stata poi pubblicata, per interessamento dell’autore, ne “La Rivista Abruzzese”, N. 1, 2016.

E’ un’umanità brulicante di luci e di ombre, di disperazione e di speranza, quella che emerge e vive tra le pagine del nuovo libro di racconti di Vito Moretti. Un’ umanità dai tanti volti e dai tanti nomi, spesso dimessa e mortificata nella sua dignità, ma altrettanto fiera e caparbia, le cui vicende e le cui storie si sviluppano e si distendono
attorno agli interrogativi che da sempre accompagnano l’uomo nei suoi dubbi e nella sua ricerca esistenziale.
Vito Moretti conferma qui il suo essere uomo (poeta, scrittore) tra gli uomini, conferma la sua natura di zoon politikon, cittadino di un mondo di cui ben conosce vizi e mistificazioni e a cui tuttavia non desidera sfuggire, sentendosene, anzi, parte integrante e responsabile, pur nelle contraddizioni e nelle brutture della storia e della
contemporaneità e nei disagi esistenziali e quotidiani che l’uomo si trova ad affrontare. Si potrebbe dire che l’autore prenda spunto e si muova seguendo la celebre massima di Terenzio “Homo sum. Humani nihil a me alienum puto” (Sono un uomo. Nulla che sia umano mi è estraneo), proprio per il sentimento di humanitas che anima le pagine del libro e che si esprime, per dirla con Alfonso Traina, nel “riconoscere e rispettare l’uomo in ogni uomo”.
Dal piccolo e rassicurante borgo della sua San Vito e dai personaggi familiari e bonari che ci aveva fatto amare ne “La polvere sul cucù”, Vito Moretti si avventura ora nei territori magmatici e insidiosi di città più grandi, dall’atmosfera seriosa e metropolitana, conglomerati evocati e racchiusi nei termini di una solida e normale urbanizzazione (strade trafficate, tram, bus, e così via), o, come nello splendido racconto “Le cifre della luna”, nell’immensità inquietante e sconosciuta di un’Africa misteriosa e arcana. Quale che sia, comunque, lo spazio scelto, lo scrittore, il più
delle volte, ama disegnarlo e delinearlo con precisione, realizzando una mappa geografica, topografica, meticolosa e puntuale. Il realismo dello scrittore è anche nella sua voglia, nel suo bisogno costante di nominare cose, luoghi, persone, come se dare un nome potesse in qualche modo svelare un destino, essere “indizio di fatalità”, come a pag. 64, (“omen nomen”), oppure salvare dall’incessante scorrere del tempo, dall’irrefrenabile divenire, o ancora rafforzare il loro stesso esistere: “Le cose esistono se le nomini, se le chiami, se le trasformi in desiderio e se le fai succedere, se lasci che accadano nella tua vita e se un po’ le tolleri…” (pag. 18).
Nei dodici racconti contenuti ne “Il colore dei margini” si rinviene in maniera evidente una doppia tramatura: da una parte, appunto, lo sguardo attento dell’autore nei riguardi della realtà, dei risvolti sociali, della cronaca, delle problematiche più attuali e urgenti che opprimono i nostri giorni o che hanno caratterizzato il nostro passato
più prossimo; dall’altra, con uguale intensità e impareggiabile acume, Vito Moretti, da fine psicologo, entra nelle pieghe e nei recessi più profondi dei personaggi, svelandone e indagandone il mondo sommerso, l’intricato e spesso invisibile labirinto della mente e del cuore. Del resto, in una breve, ma splendida poesia contenuta ne “La case che ne ze chiude”, un piccolo cammeo in dialetto, Vito Moretti scrive:
“Ugnune tè nu mare
addò calà le rete,
ddu uocchie
ch’arihèmbie la jurnate
e na nustalgije
che chiame a caminarce dèndre,
a ppèrdece judizie
e lebbertà”.
Ciascuno, dunque, ha il proprio mare, privato e personalissimo, e con questo mare, con questa nostalgia che preme e incalza, e che viene da lontano, sono chiamati a misurarsi e a fare i conti i personaggi de “Il colore dei margini”.
E’ subito da dire che il concetto richiamato fin dal titolo (MARGINE è la parola chiave, il grimaldello che apre ogni racconto), la “MARGINALITA’”, dunque, assume valenze e sfumature diverse: se da una parte è innegabile il riferimento a un’emarginazione, a un’esclusione sociale (penso a Fatima, la prostituta, ai due anziani pensionati che non riescono a tirare a fine mese, a Madhib che è uno dei tanti migranti africani), dall’altra io credo (così mi è parso di cogliere) che i margini di cui Vito Moretti parla siano anche nelle ombre e nelle scuciture che ciascuno di noi si
porta dentro e che delimitano la nostra parte “segreta”, nascosta, sconosciuta spesso anche a noi stessi. Sono i perimetri entro i quali si mostrano senza reticenze le paure e le debolezze di ciascuno, si consumano i drammi interiori, prendono vita e si animano i silenzi, le attese, i disinganni.
Al di là, dunque, dello status sociale, abbiamo tutti delle “PERIFERIE DELL’ANIMA” dove si annida e si addensa l’essenza di ogni uomo, il nucleo originario e incorruttibile di ciascuno, nel quale è ancora possibile rinvenire barlumi
di AUTENTICITA’, di verità, che vengano a sciogliere e a liberare i personaggi dai nodi esistenziali, dalle paure, dagli scoramenti e dai drammi di una quotidianità spietata e troppo spesso indifferente. “Ognuno porta con sé un’impronta, un calco, un’attitudine che si può tradire e mettere da parte, ma non sostituire con altro né
azzerare fino al silenzio” (pag. 130) dice Nello, il protagonista de “La promessa delle cose”. Ciò che più l’autore denuncia e condanna è L’INDIFFERENZA, l’apatia, il non fare, sia per se stessi che per gli altri, insieme alla superficialità dei sentimenti, all’egoismo, all’incapacità di amare, a quell’analfabetismo affettivo di cui si sente
tanto parlare ai giorni nostri. Non a caso i personaggi dei racconti trovano spesso il loro riscatto quando si aprono al mondo, spogliandosi del loro carattere di “monadi”: così è per Andrea, che decide di recuperare il rapporto con la compagna, così è per Ada ed Enrico, per Lisa, che scelgono di non farsi abbrutire dalla solitudine, ma di innamorarsi di nuovo; così è per Bartolo, che comprende come si possa sopravvivere a se stessi e perpetrare le proprie esperienze e i fatti unici di una vita raccontandoli e tramandandoli al nipote. Ma c’è anche chi non può o non vuole
cambiare, come Matteo nel racconto “Nel doppio delle acque”, che rimane chiuso nella sua raggelante e profonda indifferenza, che significherà anche, per lui, l’assenza dell’amore, una scelta, dunque, di inevitabile solitudine e di solipsismo.
Ma questo è anche un libro che, a ben vedere, ci parla d’amore, dei tanti tipi di amore, e ogni racconto ce ne mostra una tipologia, ce ne svela un volto: l’amore negato, l’amore rubato, l’amore malato, l’amore comprato, l’innamoramento, l’amore senile, l’amore materno, l’amore filiale, e così via. A riprova che, per l’autore, l’uomo non può rinunciare alla sua dimensione sociale, ai rapporti interpersonali, agli incontri, nel libro si rincorrono e si incrociano tanti “tu”, tante vite che (per libera scelta? Per un’intrinseca e fatale necessità?: l’autore lascia al
lettore la riflessione e, per così dire, l’ardua sentenza) si uniscono o si separano, si cercano, si ritrovano o si perdono definitivamente.
C’è una particolarità dei personaggi di Vito Moretti: i personaggi minori non sono solo abbozzati, ma sono scalpellati e cesellati come i protagonisti, l’autore ne racconta la storia con dovizia di particolari e con amorevole attenzione nella consapevolezza, credo, che ogni vita vada raccontata allo stesso modo, con la stessa dignità e la stessa
passione, perché ognuna è unica e irripetibile, carica di poesia e di dolore contemporaneamente, e nella sua unicità è emblematica, didascalica, paradigmatica. Dunque lo scrittore deve per primo dare l’esempio e non tralasciare, “non mettere ai margini”, i personaggi cosiddetti secondari.
Giovanni Tesio ha parlato, per Vito Moretti, e, in particolare per la sua poesia, di “FENOMENOLOGIA SENTIMENTALE”; credo che questa definizione possa estendersi anche alla narrativa, considerando la “fenomenologia sentimentale” come “rappresentazione emotiva del mondo in cui si vive con tutti i sensi rivolti alle
corrispondenze ambientali in cui si rintanano la nostalgia e la malinconia del tempo, delle stagioni, dell’infanzia, del passato, dei giorni”. Anche nei racconti, infatti, c’è un reticolato di stati d’animo e di emozioni, di percezioni e di presagi, una vera e propria galleria di “ritratti di anime”, ma anche un indugiare poetico sulla vita, uno stupore
che dialoga con il paesaggio.
Per l’autore l’autenticità, la bellezza, la speranza stessa si sposano sempre con un ritorno, un’adesione, alla semplicità della natura e ai suoi ritmi. Nascono così momenti di grande suggestione poetica, come a pag. 25: “Tirò da un lato i capelli e lasciò che la luce dall’alto della finestra le coronasse il viso e le recasse il tepore dei suoi raggi: a Sara piaceva l’impazienza di quel sole che usciva dai mesi bui e freddi e che sollecitava la natura a gareggiare con i frutti nuovi della campagna e con i colori del cielo e dei fiori. E, spegnendo per un po’ l’attenzione, si sottrasse alle parole di
Matteo e allo strepito delle lusinghe, ricordò di nuovo la nonna Armina e si rivide su quei lontani campi di more e di papaveri, rammentò il buono dell’acqua pescata nel pozzo e le parve di udire ancora, in bocca, il pane ricolmo di marmellata, l’aspro succo delle susine”.
Per Vito Moretti la natura è poesia e la poesia è nella natura: “…Sara le disse della poesia, del dovere di sentirla sempre, ovunque, di crederla negli occhi di una volpe e nel sonno dei boschi, nella gioia e nella tristezza, nei passi che salgono sui monti e nell’abbraccio dei venti, nella terra che ha bisogno di cose e in quella che dà senso
alle parole e al tempo, all’amore e alla rinuncia” (pag. 20).
Già altri hanno sottolineato (Massimo Pamio, Giovanni D’Alessandro) come Vito Moretti, ne “Il Colore dei Margini” raggiunga alte vette di LIRICITA’, in particolare nelle descrizioni del paesaggio. Il CIELO di Vito Moretti non è mai distante o indifferente, ma partecipa sempre delle vicende dei personaggi, mostrandosi azzurro e terso, nel bene, grigio e rabbuiato, nel male. Un cielo benigno e profondamente LAICO ed ECUMENICO, nel quale vibra impercettibile un anelito di trascendenza: emblematico, a tal riguardo, e di struggente bellezza e poesia il brano a pag. 34. E’ un cielo questo, a cui i personaggi guardano alla ricerca di un conforto, di un segno, e, d’altra parte, è un cielo che guarda tutti, si apre a tutti, in maniera indistinta e, potremmo dire, misericordiosa. Non posso non pensare a MANZONI, “poeta religioso del paesaggio”, come lo definiva Luigi Russo, e alle pagine liriche nelle quali la natura partecipa sempre del soffio divino, accompagnando e quasi commentando in silenzio le vicende dei protagonisti. Oppure a Fogazzaro e al suo misticismo, alla comunione spirituale con la natura che è uno dei suoi tratti distintivi
(“Nihil sine voce est”). Anche nelle pagine di Vito Moretti la natura e il paesaggio hanno una voce (anzi, forse potremmo dire più voci) che sono eco di un infinito che vibra di commozione e di presagi. Un paesaggio che, nella sua bellezza, oltrepassa lo sguardo e i limiti umani, e che parla con il linguaggio sacro e arcano, ma nello stesso
tempo sorprendentemente semplice, degli elementi, del vento, degli alberi, degli astri, della luna. Vi sono, in Vito Moretti, lune universali, calate nel circuito della storia dell’umanità che ne scandiscono, con le loro fasi, tempi e ritmi, e ci sono poi lune private, che parlano a ciascuno di noi in un modo personale e intimo.
Due piccole digressioni e suggestioni letterarie: nel racconto “Nel sussurro dei domani”, a pagg. 109-110 c’è un passo bellissimo che merita di essere letto. Bene, ho citato prima Fogazzaro. Questo passaggio mi ha fatto tornare alla memoria il brano di Piccolo Mondo Antico quando Luisa, la protagonista, viene calamitata dalle acque magnetiche del lago e tentata anche lei al suicidio.
Un altro passo è nel racconto “Le cifre della luna”, quando Madhib vede per la prima volta il mare (pag. 51): un incontro pieno di suggestione e di delicata poesia, che fa pensare al Ciaula di Pirandello che scopre la luna, con la stessa meraviglia, lo stesso spaurito e immenso stupore.
I cieli di Vito Moretti, le lune, e l’intero paesaggio sono dunque proiezioni di un sentimento cristiano, che sappiamo che anima l’autore, e che gli consente di non piegarsi mai allo sconforto o al pessimismo. E’ la speranza il messaggio ultimo che arriva al lettore, una speranza che si deve tradurre in azione, in scelte da compiere, nel coraggio di vivere. “La partita, amico mio, non è mai finita se non si decide di riporre le carte nel cassetto” esorta un personaggio del libro, uno dei più belli. Alla negatività della storia e al tempo che spazza impietoso ogni cosa si oppone, però, con
tenacia la SCRITTURA, àncora e scoglio all’eterno fluire delle cose. Lo sa bene Bartolo che capisce che “quegli uomini, quelle esistenze, quei fatti – benché lontani in altre terre e in altri mondi – potevano tornare a vivere nel piccolo grembo del suo tempo e delle sue pazienze se li avesse trasformati in storie, in parole da dire, in voci
e pronunce: nella memoria, appunto, che azzerava il buio dei rovesci e che restituiva forma alle cose, misura a ciò che si era estenuato ed assopito nella bruma della decadenza e dei trapassi”. E lo sa bene il professore de “La curva dei singolari” che dice che “i libri, anzi le parole dei libri, quelle che vanno di foglio in foglio, che viaggiano nei secoli e nei millenni, che sanno correre all’indietro e in avanti, e che si incontrano poi qui, fra le mani di chi legge, sono la partita più importante, quella della bellezza, in cui si sente l’eco, la sinfonia maestosa dell’intero universo”.
Il panta rei, il divenire, si ancora in Vito Moretti alle parole, ai racconti, ai ricordi che diventano così memoria, storia da custodire, non dimenticando però di lasciare uno spiraglio aperto al futuro, alla ricerca sempre delle lune e dei cieli del domani.

Nicoletta Fazio