Relazione scritta per la presentazione del libro di racconti “Il colore dei margini” di Vito Moretti (edizione Tabula Fati), svoltasi il 21 maggio 2015 a Lanciano. La nota è stata poi pubblicata, per interessamento dell’autore, ne “La Rivista Abruzzese”, N. 1, 2016.

E’ un’umanità brulicante di luci e di ombre, di disperazione e di speranza, quella che emerge e vive tra le pagine del nuovo libro di racconti di Vito Moretti. Un’ umanità dai tanti volti e dai tanti nomi, spesso dimessa e mortificata nella sua dignità, ma altrettanto fiera e caparbia, le cui vicende e le cui storie si sviluppano e si distendono
attorno agli interrogativi che da sempre accompagnano l’uomo nei suoi dubbi e nella sua ricerca esistenziale.
Vito Moretti conferma qui il suo essere uomo (poeta, scrittore) tra gli uomini, conferma la sua natura di zoon politikon, cittadino di un mondo di cui ben conosce vizi e mistificazioni e a cui tuttavia non desidera sfuggire, sentendosene, anzi, parte integrante e responsabile, pur nelle contraddizioni e nelle brutture della storia e della
contemporaneità e nei disagi esistenziali e quotidiani che l’uomo si trova ad affrontare. Si potrebbe dire che l’autore prenda spunto e si muova seguendo la celebre massima di Terenzio “Homo sum. Humani nihil a me alienum puto” (Sono un uomo. Nulla che sia umano mi è estraneo), proprio per il sentimento di humanitas che anima le pagine del libro e che si esprime, per dirla con Alfonso Traina, nel “riconoscere e rispettare l’uomo in ogni uomo”.
Dal piccolo e rassicurante borgo della sua San Vito e dai personaggi familiari e bonari che ci aveva fatto amare ne “La polvere sul cucù”, Vito Moretti si avventura ora nei territori magmatici e insidiosi di città più grandi, dall’atmosfera seriosa e metropolitana, conglomerati evocati e racchiusi nei termini di una solida e normale urbanizzazione (strade trafficate, tram, bus, e così via), o, come nello splendido racconto “Le cifre della luna”, nell’immensità inquietante e sconosciuta di un’Africa misteriosa e arcana. Quale che sia, comunque, lo spazio scelto, lo scrittore, il più
delle volte, ama disegnarlo e delinearlo con precisione, realizzando una mappa geografica, topografica, meticolosa e puntuale. Il realismo dello scrittore è anche nella sua voglia, nel suo bisogno costante di nominare cose, luoghi, persone, come se dare un nome potesse in qualche modo svelare un destino, essere “indizio di fatalità”, come a pag. 64, (“omen nomen”), oppure salvare dall’incessante scorrere del tempo, dall’irrefrenabile divenire, o ancora rafforzare il loro stesso esistere: “Le cose esistono se le nomini, se le chiami, se le trasformi in desiderio e se le fai succedere, se lasci che accadano nella tua vita e se un po’ le tolleri…” (pag. 18).
Nei dodici racconti contenuti ne “Il colore dei margini” si rinviene in maniera evidente una doppia tramatura: da una parte, appunto, lo sguardo attento dell’autore nei riguardi della realtà, dei risvolti sociali, della cronaca, delle problematiche più attuali e urgenti che opprimono i nostri giorni o che hanno caratterizzato il nostro passato
più prossimo; dall’altra, con uguale intensità e impareggiabile acume, Vito Moretti, da fine psicologo, entra nelle pieghe e nei recessi più profondi dei personaggi, svelandone e indagandone il mondo sommerso, l’intricato e spesso invisibile labirinto della mente e del cuore. Del resto, in una breve, ma splendida poesia contenuta ne “La case che ne ze chiude”, un piccolo cammeo in dialetto, Vito Moretti scrive:
“Ugnune tè nu mare
addò calà le rete,
ddu uocchie
ch’arihèmbie la jurnate
e na nustalgije
che chiame a caminarce dèndre,
a ppèrdece judizie
e lebbertà”.
Ciascuno, dunque, ha il proprio mare, privato e personalissimo, e con questo mare, con questa nostalgia che preme e incalza, e che viene da lontano, sono chiamati a misurarsi e a fare i conti i personaggi de “Il colore dei margini”.
E’ subito da dire che il concetto richiamato fin dal titolo (MARGINE è la parola chiave, il grimaldello che apre ogni racconto), la “MARGINALITA’”, dunque, assume valenze e sfumature diverse: se da una parte è innegabile il riferimento a un’emarginazione, a un’esclusione sociale (penso a Fatima, la prostituta, ai due anziani pensionati che non riescono a tirare a fine mese, a Madhib che è uno dei tanti migranti africani), dall’altra io credo (così mi è parso di cogliere) che i margini di cui Vito Moretti parla siano anche nelle ombre e nelle scuciture che ciascuno di noi si
porta dentro e che delimitano la nostra parte “segreta”, nascosta, sconosciuta spesso anche a noi stessi. Sono i perimetri entro i quali si mostrano senza reticenze le paure e le debolezze di ciascuno, si consumano i drammi interiori, prendono vita e si animano i silenzi, le attese, i disinganni.
Al di là, dunque, dello status sociale, abbiamo tutti delle “PERIFERIE DELL’ANIMA” dove si annida e si addensa l’essenza di ogni uomo, il nucleo originario e incorruttibile di ciascuno, nel quale è ancora possibile rinvenire barlumi
di AUTENTICITA’, di verità, che vengano a sciogliere e a liberare i personaggi dai nodi esistenziali, dalle paure, dagli scoramenti e dai drammi di una quotidianità spietata e troppo spesso indifferente. “Ognuno porta con sé un’impronta, un calco, un’attitudine che si può tradire e mettere da parte, ma non sostituire con altro né
azzerare fino al silenzio” (pag. 130) dice Nello, il protagonista de “La promessa delle cose”. Ciò che più l’autore denuncia e condanna è L’INDIFFERENZA, l’apatia, il non fare, sia per se stessi che per gli altri, insieme alla superficialità dei sentimenti, all’egoismo, all’incapacità di amare, a quell’analfabetismo affettivo di cui si sente
tanto parlare ai giorni nostri. Non a caso i personaggi dei racconti trovano spesso il loro riscatto quando si aprono al mondo, spogliandosi del loro carattere di “monadi”: così è per Andrea, che decide di recuperare il rapporto con la compagna, così è per Ada ed Enrico, per Lisa, che scelgono di non farsi abbrutire dalla solitudine, ma di innamorarsi di nuovo; così è per Bartolo, che comprende come si possa sopravvivere a se stessi e perpetrare le proprie esperienze e i fatti unici di una vita raccontandoli e tramandandoli al nipote. Ma c’è anche chi non può o non vuole
cambiare, come Matteo nel racconto “Nel doppio delle acque”, che rimane chiuso nella sua raggelante e profonda indifferenza, che significherà anche, per lui, l’assenza dell’amore, una scelta, dunque, di inevitabile solitudine e di solipsismo.
Ma questo è anche un libro che, a ben vedere, ci parla d’amore, dei tanti tipi di amore, e ogni racconto ce ne mostra una tipologia, ce ne svela un volto: l’amore negato, l’amore rubato, l’amore malato, l’amore comprato, l’innamoramento, l’amore senile, l’amore materno, l’amore filiale, e così via. A riprova che, per l’autore, l’uomo non può rinunciare alla sua dimensione sociale, ai rapporti interpersonali, agli incontri, nel libro si rincorrono e si incrociano tanti “tu”, tante vite che (per libera scelta? Per un’intrinseca e fatale necessità?: l’autore lascia al
lettore la riflessione e, per così dire, l’ardua sentenza) si uniscono o si separano, si cercano, si ritrovano o si perdono definitivamente.
C’è una particolarità dei personaggi di Vito Moretti: i personaggi minori non sono solo abbozzati, ma sono scalpellati e cesellati come i protagonisti, l’autore ne racconta la storia con dovizia di particolari e con amorevole attenzione nella consapevolezza, credo, che ogni vita vada raccontata allo stesso modo, con la stessa dignità e la stessa
passione, perché ognuna è unica e irripetibile, carica di poesia e di dolore contemporaneamente, e nella sua unicità è emblematica, didascalica, paradigmatica. Dunque lo scrittore deve per primo dare l’esempio e non tralasciare, “non mettere ai margini”, i personaggi cosiddetti secondari.
Giovanni Tesio ha parlato, per Vito Moretti, e, in particolare per la sua poesia, di “FENOMENOLOGIA SENTIMENTALE”; credo che questa definizione possa estendersi anche alla narrativa, considerando la “fenomenologia sentimentale” come “rappresentazione emotiva del mondo in cui si vive con tutti i sensi rivolti alle
corrispondenze ambientali in cui si rintanano la nostalgia e la malinconia del tempo, delle stagioni, dell’infanzia, del passato, dei giorni”. Anche nei racconti, infatti, c’è un reticolato di stati d’animo e di emozioni, di percezioni e di presagi, una vera e propria galleria di “ritratti di anime”, ma anche un indugiare poetico sulla vita, uno stupore
che dialoga con il paesaggio.
Per l’autore l’autenticità, la bellezza, la speranza stessa si sposano sempre con un ritorno, un’adesione, alla semplicità della natura e ai suoi ritmi. Nascono così momenti di grande suggestione poetica, come a pag. 25: “Tirò da un lato i capelli e lasciò che la luce dall’alto della finestra le coronasse il viso e le recasse il tepore dei suoi raggi: a Sara piaceva l’impazienza di quel sole che usciva dai mesi bui e freddi e che sollecitava la natura a gareggiare con i frutti nuovi della campagna e con i colori del cielo e dei fiori. E, spegnendo per un po’ l’attenzione, si sottrasse alle parole di
Matteo e allo strepito delle lusinghe, ricordò di nuovo la nonna Armina e si rivide su quei lontani campi di more e di papaveri, rammentò il buono dell’acqua pescata nel pozzo e le parve di udire ancora, in bocca, il pane ricolmo di marmellata, l’aspro succo delle susine”.
Per Vito Moretti la natura è poesia e la poesia è nella natura: “…Sara le disse della poesia, del dovere di sentirla sempre, ovunque, di crederla negli occhi di una volpe e nel sonno dei boschi, nella gioia e nella tristezza, nei passi che salgono sui monti e nell’abbraccio dei venti, nella terra che ha bisogno di cose e in quella che dà senso
alle parole e al tempo, all’amore e alla rinuncia” (pag. 20).
Già altri hanno sottolineato (Massimo Pamio, Giovanni D’Alessandro) come Vito Moretti, ne “Il Colore dei Margini” raggiunga alte vette di LIRICITA’, in particolare nelle descrizioni del paesaggio. Il CIELO di Vito Moretti non è mai distante o indifferente, ma partecipa sempre delle vicende dei personaggi, mostrandosi azzurro e terso, nel bene, grigio e rabbuiato, nel male. Un cielo benigno e profondamente LAICO ed ECUMENICO, nel quale vibra impercettibile un anelito di trascendenza: emblematico, a tal riguardo, e di struggente bellezza e poesia il brano a pag. 34. E’ un cielo questo, a cui i personaggi guardano alla ricerca di un conforto, di un segno, e, d’altra parte, è un cielo che guarda tutti, si apre a tutti, in maniera indistinta e, potremmo dire, misericordiosa. Non posso non pensare a MANZONI, “poeta religioso del paesaggio”, come lo definiva Luigi Russo, e alle pagine liriche nelle quali la natura partecipa sempre del soffio divino, accompagnando e quasi commentando in silenzio le vicende dei protagonisti. Oppure a Fogazzaro e al suo misticismo, alla comunione spirituale con la natura che è uno dei suoi tratti distintivi
(“Nihil sine voce est”). Anche nelle pagine di Vito Moretti la natura e il paesaggio hanno una voce (anzi, forse potremmo dire più voci) che sono eco di un infinito che vibra di commozione e di presagi. Un paesaggio che, nella sua bellezza, oltrepassa lo sguardo e i limiti umani, e che parla con il linguaggio sacro e arcano, ma nello stesso
tempo sorprendentemente semplice, degli elementi, del vento, degli alberi, degli astri, della luna. Vi sono, in Vito Moretti, lune universali, calate nel circuito della storia dell’umanità che ne scandiscono, con le loro fasi, tempi e ritmi, e ci sono poi lune private, che parlano a ciascuno di noi in un modo personale e intimo.
Due piccole digressioni e suggestioni letterarie: nel racconto “Nel sussurro dei domani”, a pagg. 109-110 c’è un passo bellissimo che merita di essere letto. Bene, ho citato prima Fogazzaro. Questo passaggio mi ha fatto tornare alla memoria il brano di Piccolo Mondo Antico quando Luisa, la protagonista, viene calamitata dalle acque magnetiche del lago e tentata anche lei al suicidio.
Un altro passo è nel racconto “Le cifre della luna”, quando Madhib vede per la prima volta il mare (pag. 51): un incontro pieno di suggestione e di delicata poesia, che fa pensare al Ciaula di Pirandello che scopre la luna, con la stessa meraviglia, lo stesso spaurito e immenso stupore.
I cieli di Vito Moretti, le lune, e l’intero paesaggio sono dunque proiezioni di un sentimento cristiano, che sappiamo che anima l’autore, e che gli consente di non piegarsi mai allo sconforto o al pessimismo. E’ la speranza il messaggio ultimo che arriva al lettore, una speranza che si deve tradurre in azione, in scelte da compiere, nel coraggio di vivere. “La partita, amico mio, non è mai finita se non si decide di riporre le carte nel cassetto” esorta un personaggio del libro, uno dei più belli. Alla negatività della storia e al tempo che spazza impietoso ogni cosa si oppone, però, con
tenacia la SCRITTURA, àncora e scoglio all’eterno fluire delle cose. Lo sa bene Bartolo che capisce che “quegli uomini, quelle esistenze, quei fatti – benché lontani in altre terre e in altri mondi – potevano tornare a vivere nel piccolo grembo del suo tempo e delle sue pazienze se li avesse trasformati in storie, in parole da dire, in voci
e pronunce: nella memoria, appunto, che azzerava il buio dei rovesci e che restituiva forma alle cose, misura a ciò che si era estenuato ed assopito nella bruma della decadenza e dei trapassi”. E lo sa bene il professore de “La curva dei singolari” che dice che “i libri, anzi le parole dei libri, quelle che vanno di foglio in foglio, che viaggiano nei secoli e nei millenni, che sanno correre all’indietro e in avanti, e che si incontrano poi qui, fra le mani di chi legge, sono la partita più importante, quella della bellezza, in cui si sente l’eco, la sinfonia maestosa dell’intero universo”.
Il panta rei, il divenire, si ancora in Vito Moretti alle parole, ai racconti, ai ricordi che diventano così memoria, storia da custodire, non dimenticando però di lasciare uno spiraglio aperto al futuro, alla ricerca sempre delle lune e dei cieli del domani.

Nicoletta Fazio