Recensione di Nicoletta Fazio al romanzo di Monica De’ Rossi “Nella natura dello scorpione” (Altromondo editore) 

Che cos’è l’amore?

Questo il primo degli interrogativi che emerge dopo la lettura de “Nella natura dello scorpione” di Monica De’ Rossi, edito da Altromondo editore nel marzo 2023. Un romanzo che, fin dalle prime pagine, punta il dito sull’ampio e screziato ventaglio del genere umano e sui sentimenti, belli e brutti, che ognuno dona e riceve. La vita di Raffaele, il protagonista, è infatti condizionata non solo dalla morte del padre ma anche – e soprattutto – dalla carenza di affetto da parte della madre. In un ambiente culturalmente e socialmente degradato, il bambino si farà ragazzo e poi uomo recando sempre dentro di sé delle ferite mai rimarginate, un vuoto, una mancanza incolmabile, un dolore inespresso che si manifesta in atteggiamenti e scelte che rivelano rabbia, insoddisfazione, vendetta, senso di rivalsa per quanto a lui è stato negato: in primo luogo la serenità e il calore di una famiglia.

A dispetto della sua spavalderia e arroganza, Raffaele è “un contenitore di dolore”, come scrive l’autrice; di lui risaltano la simpatia insieme a una “spietata freddezza”, l’orgoglio, il disprezzo verso il genere femminile e il carattere, complesso e contraddittorio, pieno di ombre. Tutto ciò lo porta a crearsi una doppia vita, pulita da una parte, criminale dall’altra: “Si stava costruendo la vita pubblica di chi si guadagna da vivere onestamente facendo il garzone del supermercato […], ma di notte era un ladro e uno strozzino.”; “Di giorno ripudiava se stesso, si guardava allo specchio e si vedeva con gli occhi di sua moglie che lo considerava un uomo onesto e buono, ma quando scendeva la notte era come se calasse il sipario e vivesse un’altra vita. Era un’altra persona nello stesso corpo, senza pentimento e senza scrupoli”.

Centrale è la relazione tra Raffaele e le donne. L’amore nel romanzo viene declinato in tutte le sue sfaccettature. Più che di amore, si tratta spesso del suo contrario: possesso, opportunismo, puro piacere, egoismo. È un impulso forte, onnipresente, ma che rimane a livello epidermico. Raffaele “non capiva l’amore” e, quando lo incontra, non lo sa apprezzare. La figura limpida e delicata di Antonella – antitetica a quella fredda e cinica della madre e al personaggio calcolatore di Romina – suscita in lui addirittura un sentimento di disprezzo, di derisione. E sì che, in fondo, in maniera forse inconsapevole e di sicuro sbagliata, Raffaele l’amore lo cerca e lo cercherà fino alla fine, inseguendo l’illusione di averlo trovato. A dominare nel romanzo è la passione, una carnalità istintiva, infuocata, a volte cruda e animalesca. L’attrazione, l’eros, il desiderio corrono sulle pagine infondendo loro una forza voluttuosa e dirompente.

In un gioco perverso, sprezzante dei sentimenti altrui e che non conosce rispetto né dignità, anche le donne rivestono spesso un ruolo che non è solo di vittime ma anche, a loro volta, di carnefici. L’amore non trionfa, e i personaggi principali, per motivi diversi, non sono in grado né di riconoscerlo né di riceverlo né di sostenerlo. Eppure sia Raffaele con Antonella sia Diana con Max avrebbero una possibilità di riscatto, un’occasione di felicità, che però non sanno cogliere.

A essere mortificato non è solo l’amore di coppia, ma anche quello tra genitori e figli: legami negati e ridotti all’annientamento totale, come se il destino si divertisse a replicare una storia già vissuta.

Scritto con uno stile snello e un ritmo rapido e cadenzato, “Nella natura dello scorpione” si muove tra realismo, sfumature sottili e risvolti psicologici, in un’analisi attenta e lucida della società e un’esplorazione delle insondabili profondità dell’animo umano.

                                                                                     Nicoletta Fazio

 

Il libro è disponibile sul sito della casa editrice Altromondo al link https://www.altromondoeditore.it/libri/nella-natura-dello-scorpione/#informazioni_tab_
Si trova, inoltre, in tutti gli store on-line e si può ordinare in ogni libreria.

 

L’AUTRICE

Monica De’ Rossi, nata a Bologna nel 1971, ha sempre lavorato con i numeri, ma ciò che ama di più sono le lettere. Ha coltivato il sogno nel cassetto di scrivere un romanzo e, con l’incoraggiamento del marito e del figlio, si è imbarcata in questa avventura che le ha permesso di esplorare lembi della fantasia a lei sconosciuti. Appassionata della natura, sia nelle camminate e nei pellegrinaggi che nelle avventure in mare, ama gli ampi spazi, montagne da scalare e mare aperto.

Monica De’ Rossi

 

Natali bianchi

 

Da piccola indovinavo il periodo dell’anno in cui si sarebbe celebrato il Natale, perché la neve avvezza ai nascondimenti costruiva mura più alte.

Nessuno poteva convincermi del contrario. Ne avevo le prove.

 

Sui campi e sulle strade;

silenziosa e lieve,

volteggiando la neve

cade.

Danza la falda bianca

nell’ampio ciel scherzosa

poi sul terren si posa

stanca.

In mille immote forme

sui tetti e sui camini,

sui cippi e sui giardini,

dorme.

Tutto d’intorno è pace;

chiuso in oblio profondo

indifferente il mondo

tace.

 

“Cade la neve” è una delle poesie delle elementari che ricordo a memoria.

Sono nata in una notte bianca del dicembre del ’43, in un paese che ha orizzonti nel  mare Adriatico e nei monti della Maiella e del Gran Sasso, l’uno madre dell’altro, pietrificati per una mancata salvezza.

Tra le grida assordanti di un pianto mi torcevo come un’anguilla accanto al ventre di mia madre. Forse è per questo che non ho mai voluto assaggiarne una. Mi quietai insieme alla tramontana e, come tutti, cedetti alla vita senza rendermene conto.

Era una delle notti della Seconda guerra mondiale, un peccato mortale venduto dai tedeschi per trenta denari.

Negli anni a venire, la mia famiglia mi addomesticò all’essenziale e ad un tempo bastevole alle risposte brevi. Era necessario realizzare il presente. Starci dentro in ampiezza, fino ai limiti della sopravvivenza. Il problema più urgente aveva lo scopo di evitare altri lutti.

Il tempo pensato in lungo era riservato al Natale con il vino fermentato nelle botti, l’olio nuovo negli otri, la farina nelle madie, l’uva, i fichi e i melograni essiccati nelle soffitte. I miei erano contadini dal carattere compassionevole, come molti nostri parenti e vicini di casa. La compassione fa trasalire gli animi dinanzi alla propria sofferenza e a quella degli altri. Ci si aiutava a vicenda per la più semplice delle ragioni: nessuno doveva essere lasciato solo nella miseria. Ci sentivamo persi e frastornati nella condizione di un immenso non sapere. Ogni vita resa insignificante dalla guerra doveva tornare ad essere indispensabile.

Bisognava ritrovare l’innocenza di ciò che era giusto, buono, affidabile, casa.

La fede si rivelò la scelta migliore. Impalpabile nelle preghiere e nei salmi, tangibile nelle tradizioni come quella della Squilla, celebrata il giorno prima della Vigilia di Natale. Un cammino che si rinnova da quattrocento anni, muovendo dal centro del paese fino alla chiesa dell’Iconicella, come deciso dall’allora arcivescovo di Lanciano Paolo Tasso, in ricordo del percorso di Giuseppe e Maria verso Betlemme. Il suono della campana della torre civica ha inizio alle 18.00. Dopo un’ora risuonano quelle di tutte le altre chiese per condividere i primi auguri di buone feste. Da bambina li scambiavo a casa di mio nonno, un contadino dall’insolito portamento regale. Accoglieva figli e nipoti in cucina, scendendo da una scala ripida che portava alle camere da letto. Preannunciava il suo arrivo con passi lenti, calzati da scarpe scure.

Ai padri bisognava garantirne almeno un paio. Erano in cima alla lista delle priorità. Non averle impediva loro di uscire per assicurare il cibo a tutta la famiglia.

In fila dal più grande al più piccolo, mi inchinavo a baciargli la mano con il palmo rivolto verso il basso, in segno di rispetto e devozione. Mi sembrava così grande da riempire quasi l’intera stanza, specialmente quando cavava da una delle tasche della giacca le tanto attese 1000 lire che stringevo al petto, tondo di mandarini e fichi secchi. Dopo sposata il nonno alzò la posta fino a 5000 lire.

Le feste natalizie si trascorrevano da lui tra adempimenti ed emozioni che non cambiavano forma, rinnovando una tradizione senza ombra di dubbi.

I preparativi per la cena della Vigilia iniziavano la mattina presto. Sguardi risaputi di meraviglia aprivano la scena sulle nove pietanze servite a tavola, ciascuna a simbolo di ogni mese di gestazione. Se ne potevano preparare anche più di nove ma non una di meno nell’attesa della mezzanotte, quando ci si guardava con il cuore incapace di pensare.

Imbandita la tavola, i bambini dai sei ai dieci anni riponevano sotto i piatti di nonni e genitori lettere di ringraziamento per l’anno appena trascorso e di buon augurio per quello in arrivo.

Una tovaglia ricamata faceva da palco alle speranze. Nessun imprevisto avrebbe potuto interrompere la sequenza di un’abbondanza inghiottita con sublime piacere. Fedelini al tonno davano inizio alla cena. In ricordo dei defunti, la prima porzione veniva servita da mio nonno al “tecchio”, un grosso pezzo di legno posto a sfondo del focolare.

A seguire, in ordine sparso andavano in scena:

cappuccia con sarde e peperoni fritti;

lumache in tegami di coccio;

listelle di finocchi crudi;

baccalà comprato in centro, proposto in due varianti: arrosto o con sughetto di pomodorini e cipolla;

brodetto di pesce da moltiplicare miracolosamente all’occorrenza.

A chiudere, trionfo di dolci con crespelle fritte, taralli con uvata, calcionetti con ceci, frutta secca e mandarini.

Il tutto accompagnato spesso da un vino cotto dalla vita breve e dallo spirito liquido più del necessario.

Terminata la cena ci si recava nella casa accanto, dove un patriarca con baffetti e occhi di stelle leggeva preghiere in latino da un libriccino nero. Nell’incanto di una quieta ignoranza, si restava immobili in quella strana realtà partecipata. Il Bambinello veniva adagiato con cura su un piccolo altare stuccato di bianco, dimora di crocifissi e statuette di Santi trasferiti temporaneamente altrove. Il Patriarca aveva inciso sui mantelli in terracotta di ciascuno una falce e un martello, convinto che Cristo fosse un socialista.

Ci si congedava in preghiera sull’uscio della porta di una casa vicina, lasciata accostata tutta la notte. Da lì intravedevo il camino acceso e la tavola imbandita con formaggio, noci e fichi secchi, per confortare la Sacra Famiglia dalla fame e dal freddo.

Il giorno di Natale le donne della mia famiglia assistevano alla prima messa, per curare in tempo i preparativi per il pranzo. Sotto lo sguardo vigile di mia nonna paterna una gallina cuoceva nel brodo di pallottine cacio e uova, cardone e tagliolini fatti in casa. Poco dopo la si scomodava per servirla come seconda portata, omaggiandola con peperoni arrosto e vino bianco.

Panettoni e torroni erano lussi concessi ogni anno dall’unico zio emigrato in una città del nord.

Una poesia dedicata a Gesù bambino da un autore ignoto concludeva il tutto. Veniva recitata dalla zia di mio padre, che la ricordò a memoria fino al suo centesimo anno di età:

 

Quanda si ‘bbelle

dentr’ a sa grotte

mi simbre ’na stella rilucente

mezz’ a lu ciele de la mezzanotte.

Appena s’ ho sapute ca si ‘nnate

je pure me so fatte ‘na scappate

e mò che s’ho menute

chi ti ja dà?

Cumbitte, gianduje, pasticcine.

Ma tu nin ti li dinte,

nin li pù ciaccà.

Je sacce ch’è menute le Re ‘Mmage

dall’Uriente, da nu Paese

luntane luntane

e quanda cose ‘bbille t’hanne purtate:

ore, incense e mirre,

pe’ regalarle a Te,

povere Bambinelle!

Uh, non ti li fasce!

Tè, ecchete stu fazzulette, ammandete!

Abbenedice tutte quiste

che me stanne attorne!

E, quande la vita me’

addà finì,

purteme ‘mbracce a Signurì!

 

Irene Giancristofaro

 

Irene Giancristofaro    

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nota critica di Marcello Marciani al libro di poesie in dialetto lancianese “Bbendétte stu dijalètte” di Giuseppe Rosato.

In tutta la lunga, vasta produzione letteraria di Giuseppe Rosato, si sono da sempre evidenziati due grossi filoni, due approcci diversi ad esprimere il mondo e le sue sfaccettate articolazioni: la vena concettuale/filosofico/affettiva, che spazia dall’indignazione civile allo struggimento della mancanza, dall’inquietudine metafisica alla tenerezza nostalgica per condizioni e affetti scomparsi, pervasa da una malinconia e da un disagio esistenziale che avvolge tutti gli aspetti del vivere; e la vena ironica, o sarcastica e beffarda, verso ingiustizie storture e piccinerie sociali, spesso concentrata in piccoli libri dal gusto sapido o addirittura comico, in cui lo sguardo sornione dell’antico vignettista traduce i suoi segni caustici in versi irriverenti e in battute fulminanti.
Queste due anime della scrittura di Rosato, la seria e la faceta per così dire e semplificare, sono andate avanti per anni parallelamente, ognuna seguendo il suo percorso e, anche se spesso si sono incontrate in uno stesso libro, era sempre l’una a prevalere sull’altra e a conferire il carattere all’opera.
Ma con Bbdendétte stu dijalètte, l’ultima raccolta di poesie in dialetto frentano dello scrittore lancianese, accade qualcosa di diverso, perché con un equilibrio impareggiabile l’autore riesce a conciliare queste sue due anime poetiche donando ad ognuna una rilevanza, espressiva ed etica, di grande spessore, per cui l’opera risulta “leggera” e “comica” in molte pagine e dolente e amara in altre, ma nella sostanza ironia e malinconia, comico e tragico si amalgano grazie ad una scrittura che riesce ad esprimere tutta la variegata complessità dell’esperienza umana. Il titolo rimanda all’importanza fondamentale del dialetto, benedetto sia pure ironicamente, veicolo linguistico senza il quale tutta l’opera non esisterebbe. Potrebbe sembrare questa una precisazione ovvia, in quanto ogni forma espressiva esiste in quanto linguaggio, ma qui il discorso è proprio metalinguistico, all’interno della scelta dialettale e del suo declinarsi in parlata, mezzo di aggregazione di una comunità e, col tempo, suo archivio memoriale. Il poeta non solo parla per mezzo del suo dialetto lancianese, ma “viene parlato” da esso, si lascia attraversare da questa lingua, diventa uno dei tanti attori che abitano un mondo di tradizioni, proverbi, sentenze e motti dialettali restituiti, grazie all’energia del verso, alla loro ruspante vitalità, presta il suo io alle innumerevoli voci, ruvide o bonarie, di un coro, anche se nei testi più personali si distacca il suo timbro pensoso di solista. C’è, in questo scavare nella parlata dei padri, la ricerca di termini ed espressioni desueti, dimenticati, che affiorano alla memoria come improvvisi soprassalti sonori: esempi fra i tanti l’aggettivo vedellègne, che indica le budella fradice, o lu talorne, che è il piagnucolìo insistente, o l’ova hallàte (uovo gallato), che stimola un’acuta riflessione sulle antiche parole affondate, perdute nel tempo odierno che si gonfia ogni giorno di altri termini nuovi, che affollano l’orecchio ma non trovano posto nella mente. E pertanto il mondo cambia anche perché cambiano le parole per dirlo, ma questa considerazione, derivata dalla fenomenologia linguistica, si spoglia di ogni algida concettualità per declinarsi, nel verso di Rosato, in toccante e coinvolgente poesia. Tuttavia la ricerca lessicale non è soltanto archeologica, non si ferma al recupero dell’antica parlata, ma ingloba voci mutuate dall’odierno lessico tecnologico o finanziario, traducendole in lancianese con esiti stranianti e a volte esilaranti: si pensi all’amplefònne, versione abruzzese del’apparecchio acustico Amplifon, o al telefono cordeless che diventa curdelèsse, che rima ironicamente con port’apprèsse, o agli indici azionari lu Mibbe e lu Nasdàcche. Ma la volontà di adattare una lingua antica e sedimentata alle esigenze invadenti del presente genera un sovrappiù di amara ironia, una sorta di inappartenenza ai rituali e alle manie di un tessuto sociale che appare sempre più alienante, intollerante e incattivito. Se ne ha la prova in uno degli ultimi testi della raccolta, in cui la violenza tutta solo verbale di certe passate e rudi imprecazioni lancianesi non può trovare confronto nella realtà ben più crudele e ferina delle cronache attuali:

Mò t’allènte nu pacche, na sardelle,
nu scaffatone… O vû nu cazzuttòne?
Na vrettelìne, na salechejàte,
nu liscebbùsse, nu palijatòne,
na vattènte… Aspìtte, ca mò sigge,
mò ci-abbùsche, te ’n tòmme,
te facce nove-nove! Mò t’ammòlle
nu vangatòne che te fa’ vutà’
lu monne, che te fa’…

Quanta storie, na vote, lite-e-sciarre
e strille e quanta chiacchiere a lu vente
tutte le jurne, ammonte pe’ le ruve,
a lu spiazzètte, o dentr’a nu purtone.
Ma gna jèv’a fenì’? Foche de paje
che sbarejé. Mò cchiù! Tra patre, fije,
mòje, marite, ugne chi àtre, mò
n’se spreche na parole:
a-quanta pije e te s’a n-òme accìde.*

 

Marcello Marciani

* Da Bbendétte stu dijalette, pag. 49

Marcello Marciani presenta “Bbendétte stu dijalette” di Giuseppe Rosato a Villa Sirena il 22 febbraio 2020. (foto di Scribo – tutti i diritti riservati)

 

Giuseppe Rosato e Marcello Marciani a Castel Frentano, il 6 agosto 2019, in occasione del Premio “Di Loreto – Liberati”. (Foto di Scribo – tutti i diritti riservati)

FOCUS

DUE GRANDI PROTAGONISTI DELLA CULTURA ABRUZZESE CONTEMPORANEA

Giuseppe Rosato (Lanciano, 14 maggio 1932) ha insegnato Lettere e lavorato per la RAI, nei servizi culturali e nei programmi, e per riviste e terze pagine di quotidiani. Ha pubblicato libri di versi in lingua e in dialetto (a incominciare da “L’acqua felice”, Schwarz, Milano 1957), di narrativa, prose brevi, aforismi, oltre ad operine satiriche, epigrammatiche, parodistiche. Ha condiretto le riviste Dimensioni (1958-1974) e Questarte (1977-1986). Nel 1966 ha fondato con Ottaviano Giannangeli il Premio Nazionale “Lanciano” (poi “Mario Sansone”) di poesia dialettale. E’ stato segretario generale del Premio Flaiano di Pescara, dall’anno della sua fondazione fino al 1991. Ha vinto prestigiosi premi letterari, tra i quali il “Carducci” (1960) e il “Pascoli” (2010). Nel 2010, per la sua attività letteraria e culturale, è stato insignito del “Frentano d’Oro”.

Marcello Marciani è nato e risiede a Lanciano (CH). Ha pubblicato: “Silenzio e frenesia” (Quaderni di “Rivista Abruzzese”, Lanciano 1974), “L’aria al confino” (Messapo, Siena-Roma 1983), “Body movements”, con traduzione inglese a fronte di Amelia Rosselli (Gradiva Publications, Stony Brook-New York 1988), “Caccia alla lepre” (Moby DicK, Faenza 1995), “Per sensi e tempi” (Book, Castelmaggiore 2003), “Nel mare della stanza” (LietoColle, Faloppio 2006), “La corona dei mesi” (LietoColle,Faloppio 2012), “Rasulanne” (Cofine, Roma 2012), “Monologhi da specchio” (Robin, Torino 2017) e, infine, “Revuçégne”/”Rovistamenti” (Puntoacapo, Alessandria 2019). Suoi testi in dialetto frentano sono stati eseguiti negli spettacoli Mar’addó’ (1998-1999) e Rasulanne (2008/ 2012), dove ha partecipato anche come attore. Dal 1988 al 2008 è stato segretario organizzatore del Premio Nazionale di Poesia in Dialetto “Lanciano-Mario Sansone”. Ha ricevuto diversi premi, fra cui: Gabicce Mare, Matacotta, Nelle terre dei Pallavicino, Noventa-Pascutto, Pandolfo, Penne, Ischitella-Pietro Giannone, Salva la tua lingua locale, Giuseppe Malattia della Vallata, Poesia Onesta. È presente in riviste e antologie italiane e statunitensi con componimenti in italiano e in dialetto.

Recensione al romanzo di Giovanni Capurso, “Il sentiero dei figli orfani” (Alter Ego Edizioni), apparsa sul quotidiano “La Città” di Teramo il 19 luglio 2019.

Sul filo di una memoria vivida, che si affaccia sull’estate del 1990, in un piccolo paesino della Lucania, San Fele, Giovanni Capurso restituisce uno spaccato intenso e nostalgico di una società agricola e di un piccolo mondo esiodeo, sospeso nel tempo: “A San Fele il ritmo ciclico della natura resisteva a ogni cambiamento: in molti ancora si svegliavano al canto del gallo e finivano il lavoro al crepuscolo. Questo suo essere fuori dalla storia e dagli eventi, più che una maledizione, dalla gente schiva del posto veniva considerata una virtù”. Il paese, adagiato “come una farfalla su un fiore”, insegna ai suoi abitanti il valore della lentezza, dell’operosità, del silenzio. Il pudore dei sentimenti, l’inviolabilità della natura. Anche Savino, il più piccolo della famiglia “Trentadue”, come sono soprannominati in paese i Chieco, respira l’atmosfera semplice e laboriosa di casa sua, conosce la felicità nelle corse a perdifiato con il suo migliore amico l’Anguilla (uno dei tanti riferimenti dell’autore a Cesare Pavese, presente anche nell’esergo iniziale) e nei “piccoli riti” delle loro “liturgie bucoliche”, in mezzo a una natura intatta e selvaggia, che è tutto il suo mondo. Un mondo i cui confini gli vanno già stretti e che non gli basterà più dopo aver conosciuto Adamo, il misterioso forestiero che viene dal nord Italia, bravo a realizzare barche in miniatura, e Miriam, la ragazza per la quale prova i suoi primi turbamenti amorosi. Agli occhi di Savino, che brama di raggiungere il mare, che non ha mai visto, entrambi rappresentano una rivelazione, un segno di evasione, di libertà. Il punto focale della narrazione ruota attorno alla perdita, alla mancanza, come la parola “orfani” nel titolo suggerisce. Ogni personaggio reca con sé una ferita, un’assenza. Anche la terra è lacerata dal distacco di chi è andato via. Per Savino la scomparsa della nonna costituisce il suo primo incontro con la morte, la prima, dolorosa occasione di riflessione e di crescita interiore. Lo sguardo del ragazzo, “principiante della vita” ma già sensibile e attento lettore della realtà, incomincia a cogliere in profondità le sfumature e il senso dell’esistere: “Quella notte fece salire in superficie cose che fino a quel momento mi sembravano scontate, o che forse non avevo mai capito davvero; per esempio quanto mia nonna, donna di fede e discreta, si fosse sempre fatta amare da tutti, senza mai lamentarsi di niente, perché guardava ogni evento come il segno tangibile della volontà divina”.

A ben vedere, l’intera narrazione si snoda, sulla scia delle indagini a cui la filosofia e la letteratura greca ci hanno abituato, come una ricerca della identità dell’uomo (il famoso γνῶθι σεαυτόν del tempio di Apollo a Delfi) dalla quale non può prescindere una riflessione sulla religione, sul Divino e sul senso dell’esistenza. Ogni personaggio interpreta e vive a modo proprio la relazione con l’Assoluto, anche se nessuno nella storia è mai completamente distante da un sentimento panico di Infinito, per cui “tutti noi apparteniamo a questa grande divinità di cui siamo una microscopica parte”. “Quando Dio parla” sostiene Adamo “fa mormorare un fiume, scuote le fronde di un albero, irrompe con la sua eco in un canneto, fa battere le ali di un uccello, e con il vento si struscia su un covone di grano. Tutto si muove in sincronia quando Dio spezza il fragore del silenzio”. Immagini di grande poesia, indissolubilmente legate a quella natura che rende San Fele un paesaggio paradisiaco e mitico, come mitica è quell’estate da adolescente di Savino (quale lettore, del resto, non ne ha almeno una conservata nel suo cuore?).

La luce, grande protagonista del romanzo, a seconda dell’intensità dilata e contrae pensieri, ore ed emozioni e contribuisce a delineare un’atmosfera spesso rarefatta, indistinta, onirica, che contrasta con il realismo della narrazione. Avviene così che, di tanto in tanto, si aprano nel dettato degli squarci suggestivi, che sfuggono alla logica corrente per collocarsi in una dimensione altra, quella del sogno, del magico, dell’intuizione, delle percezioni extrasensoriali. Il tempo sospeso e ancestrale di San Fele, ad esempio, soggetto al divenire e all’eterno ritorno “degli eventi naturali e dei riti collettivi”, viene misurato da Savino “in foglie che si facevano spazio sui rami o vorticavano nell’aria e ancora dai nove rintocchi delle campane che annunciavano il mattutino e dai ventuno tre ore prima del tramonto”. Tornano le antiche leggende, e con esse, nella sera, riappaiono al ragazzo gli spiriti che, da piccolo, gli pareva “si nascondessero tra gli anfratti del borgo”; e, infine, una misteriosa eco di infinite e indefinite risonanze proviene dai suoni della natura: “Mi disse cose del tipo che bisogna affezionarsi agli alberi, distinguerne le voci quando il vento ne scarmiglia i rami e le foglie… La loro voce cambia e ti avvisa – se hai imparato a capirla – che la tempesta sta arrivando o che le nuvole cederanno al sereno. La voce degli alberi vive nel vento come quella di ogni altro elemento della campagna…”.

Nicoletta Fazio

 

Giovanni Capurso

Mane di Rolando D'Alonzo

OLTRE E DENTRO IL TEMPO: LA POESIA PENSANTE DI ROLANDO D’ALONZO

Una riflessione critica di Marcello Marciani su Mane (Tabula fati, Chieti 2018)

 

Quest’ultimo testo di Rolando D’Alonzo costituisce il terzo tempo di una ideale trilogia iniziata con Mitologia minore, opera pubblicata nel 2014, e proseguita con Lune, nel 2016. Pertanto, ad un intervallo biennale fra libro e libro, D’Alonzo approfondisce il suo percorso in versi fra le spirali della Storia e della Memoria, sia individuali che collettive, cogliendo di esse le continuità e le differenze rispetto ad un presente privo di riferimenti certi, lacerato e immemore. Ma la stessa concezione di “presente” in questo libro è superata, perché l’autore guarda alle vicende contemporanee con uno sguardo non certo limitato al dato fattuale, cronachistico, ma secondo una visione trasversale in cui presente e passato, echi e vestigia della cultura classica, rimandi alla grande poesia occidentale del secolo scorso e lessici mutuati dall’odierna comunicazione massmediale ed elettronica convivono disinvoltamente. Assorbendo infatti la lezione di alcuni maestri della poesia del novecento, come Pound ed Eliot, Rolando sa che il passato si vivifica e rinnova nel presente e viceversa il presente trasporta i vessilli millenari di epoche passate, anche quando sembra celarli. Le Gorgoni rinascono così nelle stragi di Kabul e di Gaza, le figure muliebri colte fra creme al retinolo e asfalti di periferie hanno i nomi di Tecla, Milesia, Cleobule. Tutto al tempo stesso è “contemporaneo” e “arcaico” in una compresenza spiazzante, in una narrazione prosodica che eleva a livelli di alta affabulazione linguistica, in un’aura mitica, l’esperienza del pensiero. Perché un dato è certo: questa scrittura nasce da un continuo, incessante pensiero, che permette di compattare insieme occasioni private e tragedie della Storia, slanci amorosi e invettive civili. È il pensiero a far sì che l’io poetante non si identifichi con l’ego del poeta, nemmeno quando ne svela le inquietudini e le fragilità, ma lo faccia vibrare in una voce corale da aedo, che riesce ad unire i vari registri dell’opera, sia il lirico che l’epico, sia il sublime che il beffardo. Afferma Francesco Paolo Memmo a proposito dell’opera di Ferdinando Falco, un grande poeta sperimentale sconosciuto al grosso pubblico e scomparso due anni fa: “La poesia (per Falco: ndr) non è espressione lirica dei sentimenti (la formula crociana studiata a scuola), non è esibizione di sé, non è contemplazione del proprio ombelico. La poesia è pensiero. Pensiero che si fa forma. Pensiero poetante. Pensiero che si nutre di tutto ciò che tocca, della nostra storia e di quella degli altri, delle radici che abbiamo coltivato, della cultura che ci ha formato, delle persone che abbiamo incontrato. Perciò la poesia può essere una cosa e un’altra: perché tutto alimenta il pensiero. Si procede non per sottrazione ma per accumulo. E anche il superfluo è necessario. Il caso irrompe nel disegno. Ed è inarrestabile il pensiero, nessuna gabbia può imprigionarlo” (*). Analisi questa del tutto applicabile all’opera di D’Alonzo, che non scaturisce da un impeto irrazionale ma da una incessante elaborazione speculativa, che tuttavia non si arena in algidi concetti ma si converte in suono, ritmo, parola che si dipana senza intrappolarsi in prefissate gabbie metriche ma seguendo un suo personalissimo andamento fluviale, poematico, che agilmente passa dalle terzine ai distici sfalsati, da stralci di esametri a sparsi endecasillabi e dodecasillabi per esprimere le sfaccettature e le vivaci divergenze di un pensiero che ogni campo del reale e dell’immaginario sostiene e trascina. A proposito si possono citare come esemplari due passi:

“In pensieri di vento se ne vanno in viaggio

gli alberi e mai abbandonano la soglia terrena (…)”

 

“Pensano le case nelle notti estive,

vuote conchiglie di opere addensate,

pensano in un procedere di tremiti

 

e vive scale, pensano nel cigolio di porte

alla divisione delle stanze, alle ramaglie

che serrano le nuvole all’ansito

delle forre (…)”

Ecco quindi che gli alberi, le case, pensano, in una sorta di animismo alimentato da una forza interiore che dovunque si espande. Ma non si creda con questo che ci si trovi dentro una poesia tutta cerebrale, intellettualistica, perché il pensiero è un’energia totale, che attraversa mente e corpo, entra anche nei sentimenti e nei sensi, fa sue le gioie e le ansie dell’amore, esplorato soprattutto nelle sezioni intitolate a nomi latini di donne, che hanno lo scopo di decantare lessicalmente il tema amoroso, di distanziarlo in un’aura classica eppure straniata, inquieta e inquietante, come accade in certi componimenti che sono incantate epifanie, fuori dal tempo e dallo spazio quotidiani eppure attraversate da tempi e spazi di più epoche intrecciate:

“Una porta tu sei che nella casa

tra oggi separa e l’altro ieri

tra questi passi che gli uomini

 

in me segreti lasciano su lane

e basole, senza rumore senza

distanze da coprire senza via

 

e le altre sconfinate rive le altre

porte da inventare di sera

in sera in riva a ogni mare.

 

Una porta tu sei che sempre

aperta alle dita in fiore cede

alle lucciole dei giorni brevi

(…)

Il lirismo intenso e acceso di questi versi, e di molti altri delle prime sezioni, dedicate alla luna e alla figura femminile, contrasta col timbro acre e caustico, da furiosa invettiva civile, di altri, dove si scatena tutto il sarcasmo e la rabbia dell’autore verso un mondo che non conosce altro valore, o meglio disvalore, se non quello del profitto e del tornaconto, anche a costo del cinismo più cruento ed efferato. Un vero manifesto in tal senso è il componimento La tavola: lungo 179 versi, occupa tutta la penultima sezione del libro come un poemetto a sé stante, eppure inserito in piena armonia nella struttura poematica delle altre parti dell’opera. Qui la reiterazione ossessiva dell’espressione o.k. si fa suono cupo di un tamburo tribale, di un occidente divenuto giungla d’interessi globalizzati, “venuti fuori per errore da una cassa/ proibita”. I rimandi precisi all’attualità, alle storture, alle torture e agli eccidi della
Storia recente, vengono comunque inseriti in un discorso di accorata pietas umana, con uno struggimento che pervade e lacera i versi finali:

Poi disponiamo le nostre piccole morti

disparati alla meno peggio, esequie

comprese, ai cantoni dei caseggiati

 

profili arrugginiti nell’ombra dei muri

in giri smunti che il sole in un gomito

dividono in altri successivi mondi

 

mattini notti a piedi da inventare

disperati fino all’ultimo respiro

fino al trasalire in mezzo al vetro

 

dell’ultima azzardata stella, noi

riflessi da una polvere di strada,

paglia che mai più si infoca.

Pertanto in quest’opera coesistono la lirica e l’epica, lo slancio amoroso e l’invettiva, la rivisitazione di lessici e moduli classici e l’addentrarsi negli slang e nei tic verbali odierni, l’armonia delle terzine e lo spezzettarsi della prosodia in forme metriche eccentriche: sembrerebbe un insieme incoerente e caotico e invece ogni aspetto tematico e formale s’incontra e torna nella dinamica di un “pensiero poetante” che sa orchestrare temi e stilemi diversi fra loro con il vigore addensante, imprevedibile e a suo modo miracoloso, della parola. Perché quel Mane del titolo, quel primo mattino in cui, secondo una dichiarazione dell’autore, la mente è ancora intrisa dei sopori e dei fantasmi della notte eppure si apre allo stupore di un nuovo risveglio, è pure il momento in cui il pensiero comincia ad articolarsi in parola, a scandirsi ancora una volta nelle più varie e contrastanti sillabazioni del dire.

Marcello Marciani

(*) dalla Prefazione di Francesco Paolo Memmo a Della morte del caso del superfluo e altre poesie dattiloscritte, di Ferdinando Falco, Edizioni Cofine, Roma 2018

PRESENTAZIONE DEL LIBRO DI POESIE "MANE" DI ROLANDO D'ALONZO - 12 DICEMBRE 2018

Marcello Marciani a Villa Sirena parla della poesia di Rolando D’Alonzo

Mane di Rolando D'Alonzo

Marcello Marciani

Relazione sul libro di Vito Moretti, “Gli anni venuti” (edizione Tabula Fati), presentato a Lanciano il 27 maggio 2018 e infine a San Vito il primo agosto dello stesso anno.

Dalle giaciture del tempo e della memoria prende avvio questo nuovo volume di Vito Moretti, “Gli anni venuti”. Già dal titolo, com’è sua consuetudine, l’autore indica con sottile raffinatezza che “gli anni venuti” non sono anni passati, conclusi, trascorsi, ma anni che non sono mai andati via; che continuano a vivere nelle maglie del personale presente dello scrittore, in un dialogo ininterrotto tra esperienza e quotidianità, tra logica e “piccole epifanie emotive”, con il desiderio e con l’intento di serbare il valore dei ricordi, rendendoli materia viva, per traghettarli oltre ogni dimensione temporale, nelle pagine che solo la scrittura e la letteratura sono in grado di plasmare e di eternare.

In questo senso, riferendomi all’ultima raccolta poetica di Vito Moretti, “Le cose”, anche gli anni venuti sono cose che raccontano la costruzione della sua vita, diventano espressione efficace della sua identità umana e di scrittore.
Del resto Vito Moretti conserva sempre un legame fluido con il passato. Basti pensare ad alcune sue opere come “La polvere sul cucù” o “La case che nze chiude”: la polvere rimane sul cucù, non va via, e la porta della casa resta aperta, a sottolineare che le tracce di ciò che è stato e di ciò che siamo stati permangono nel presente, soprattutto se la porta non viene chiusa, se si resta in ascolto dei sussurri della memoria, se non si recide il laccio con il nostro sostrato originario. “E capisco, allora” scrive l’autore, in un passo bellissimo a pag. 26, constatando l’inevitabile cambiamento
avvenuto intorno a sé negli anni “che tutto può essere ancora vivo se si lascia che le scalfiture e le abrasioni rodano soltanto in superficie e che le gobbe degli imbronciamenti e delle mestizie non crescano ad ostruire e a ricusare”.
Ho usato finora termini come ricordi, memoria. Ma va detto subito che “Gli anni venuti” non vuole sicuramente essere un memoriale né un’autobiografia, ma quasi un completamento, una prosecuzione naturale del pensiero dell’autore e della sua poetica. In essa lo scrittore riannoda i fili dell’esistenza, a partire dalla sua infanzia a San Vito fino ad arrivare alle soglie del nuovo millennio (il libro si chiude il 31 dicembre 1999), rintracciando tra le pieghe del tempo, dello spazio e delle esperienze vissute uno e più bagliori che illuminino e rivelino i significati più oscuri, le trame più enigmatiche, della propria e altrui vicenda umana. Mezzo secolo di storia, storia individuale e collettiva,
sociale e culturale, storia di paese e storia del mondo, che, insieme all’inevitabile bagaglio di cronache, umori, avvenimenti che portano con sé, si uniscono, si intrecciano e si compattano formando una campitura solida e densa di fatti, prospettive e sentimenti. “Gli anni venuti” rappresenta, dunque, un itinerario di vita e di scrittura, un approdo letterario che ben armonizza biografico e romanzesco. La letteratura, del resto, permette di dilatare i confini del vero e dell’ovvio, di giocare al limite della frontiera che divide i due piani dell’invenzione e del reale. Siamo davanti allo scrittore avveduto, sapiente, che con maestria racconta e si racconta, spesso tra le righe, riuscendo a
oltrepassare la cortina del mero orizzonte personale e a “fare del privato uno specchio dell’universo” (pag. 22).
Il libro è diviso sostanzialmente in tre parti e ha una struttura circolare. La circolarità, a mio parere, è data dal fatto che la narrazione si apre su San Vito e nell’ultimo capitolo torna, almeno inizialmente, a San Vito.
Il primo capitolo lo definirei una sorta di prologo lirico, un sentiero, un corridoio indispensabile per accedere al capitolo centrale, che rappresenta il cuore del libro. Il primo capitolo ha un titolo simbolico ed evocativo, “La terra che ha nome” (qui si aprono due riflessioni: da una parte penso all’antitesi con la Valsolda di Fogazzaro, che Carlo Bo definì “Il paese senza nome”, sottolineandone l’isolamento e la natura aspra e austera; Fogazzaro affermava addirittura che la Valsolda era “fuori del mondo conosciuto”; dall’altra voglio ricordare come l’atto, l’operazione del “nominare” sia importantissima in Vito Moretti, che con l’attribuire un nome posiziona nello spazio e nel tempo
l’oggetto, la persona, il fatto, dona loro vita ), si apre su San Vito, il paese che l’autore chiama affettuosamente e teneramente “la piccola mongolfiera che s’alza sulle nuvole rosse dei tramonti e che fa lieta la sera” e poi anche “il paese che resta cucito sotto la mia camicia e che ho portato addosso anche quando sono andato per altre strade”. San Vito, con il suo promontorio che “segnala i ritmi delle stagioni”, con il suo mare e la casa dell’infanzia, è un affresco stampato nell’anima e reca con sé soprattutto i volti cari della nonna – del resto è nonna Rosa il primo personaggio del libro – e dei genitori, espressione e sintesi di un piccolo mondo pennellato dall’autore con grande intensità lirica. E’ la terra, questa, che conserva i segni della scoperta più grande da parte di un giovanissimo Vito Moretti, “l’esperienza”, scrive l’autore, “che avrebbe trasformato la mia vita”: la scoperta, meglio ancora, l’incontro con la poesia. “Da quel momento”, continua Vito, cioè (aggiungo io) da quella che può definirsi una vera e propria folgorazione “– mi ripromisi di diventare nient’altro che poeta”.
Massimo Pamio nella prefazione sottolinea come San Vito sia insieme paese natale e paese del cuore, ma è anche – attenzione!- luogo letterario e per questo soggetto a revisioni, ripensamenti, trasformazioni. Il senso di appartenenza al suo paese è forte in Vito Moretti, che da una parte è uomo del borgo dall’altra cittadino del mondo, che si confronta con il mondo, mosso dalla curiosità della scoperta e della conoscenza, ma allo stesso tempo come Ulisse
desideroso sempre di tornare sui suoi passi, al suo piccolo angolo di terra, di storia e di affetti.
Del resto, anche l’Abruzzo è il mondo, “l’Abruzzo dai cieli azzurri e tersi che, all’improvviso, si rabbuiano in tempesta” è “nient’altro che il mondo”. Così afferma, infatti, lo scrittore Elio Bartolini a Vito Moretti (pag. 96). “Tu lo chiami Abruzzo e per me, invece, ha nome Friuli; ma è la realtà che ognuno si ritrova dentro e che usa per celare o per mettere in mostra, per asserire o per disconoscere. Noi siamo – se ci pensi – la sostanza e la forma del nostro stesso tratto di terra che, dalla nascita, percorriamo con i piedi e con gli occhi”.

Tutto il libro è costellato da un richiamo, da un ritorno costante alla terra. E qui in particolare l’autore sembra giustificare e rivelare le ragioni del primo capitolo, il partire da San Vito: non si può prescindere, nel bene e nel male, dal proprio paese, dalla propria terra perché, appunto, “noi siamo la sostanza e la forma” di quello stesso angolo dove siamo nati e cresciuti, da dove siamo partiti e ci siamo formati. Sul valore identitario del proprio paese, Vito Moretti tornerà anche nel secondo capitolo, dove il discorso si farà più squisitamente letterario, anche se non perderà mai i suoi connotati più umani ed emozionali. Rispondendo a Raffaele Nigro che afferma “La letteratura è un destino, non una scelta… noi non scegliamo nulla, ma dobbiamo immancabilmente fare i conti con il luogo – la terra – che ci ha chiamati”, Vito Moretti ribatte che “quella terra dove ognuno si riconosce – quel mondo di nomi e di ricordi, talvolta di scompigli e di caute obbedienze – è il nostro paese, forse anche l’altrove, cioè la misura che viene a riempire fino all’ultima ruga l’ansia del tempo e delle navigazioni, la fantasia che ci dà l’ebbrezza delle mete, il candore dei desideri” (pag. 66). Per lui – io credo – valgono le parole del poeta Giuseppe Bonaviri: “Restare radicati alla propria identità è ritrovarsi nelle parole che ci fanno liberi e maturi ed è l’esperienza che predispone l’animo alle passioni più sagge”.
La terra, dunque, per Vito Moretti, è àncora ma è anche libertà, la terra non limita e non costringe, ma è il nostro sostrato, quindi è la misura con cui leggiamo la realtà, il respiro intenso dei giorni che ci parla di nostalgie ma anche di desideri. Dal luogo natìo lo scrittore muove poi i suoi passi verso un altrove fatto di luoghi, di esperienze e, soprattutto, di incontri. Entriamo dunque nel capitolo centrale, il secondo: qui troviamo incontri “storici” – potremmo dire – d’eccezione, non solo letterari con i protagonisti della cultura e della letteratura del ‘900: da Mario Luzi ad Alberto Moravia, da Giorgio Bassani a Maria Luisa Spaziani, da Giuseppe Bonaviri a Luciano Luisi, da Mario Pomilio a Piero Bigongiari e così via, Andrea Zanzotto, Alberto Bevilacqua, Cecilia Gatto Trocchi, Giovanni Raboni, e tanti altri; ma è originale e significativo che uno spazio importante sia dedicato anche agli incontri con i cantautori come, ad esempio, Lucio Dalla, o più in generale con la canzone d’autore in genere (Guccini, Finardi, Bertoli, Zero, Venditti), in un periodo in cui (anni ’70) la canzone d’autore “dava concretezza ad un’esigenza profonda di contenuto, recuperando la funzione comunicativa della parola, facendone racconto immediato, emozione, specchio di cronaca e di esistenza” (pagg. 38-39). In realtà il libro cita spesso le canzoni per accompagnare i pensieri dell’autore, o i suoi ricordi, o fatti storici rilevanti, confermando l’importanza e la dignità che l’autore concede alla musica e ai cantautori.

Nel racconto dei suoi incontri, Vito Moretti apre come delle finestre, degli squarci nel tempo, delineando dei quadri e consegnando al lettore dei ritratti particolarissimi dei personaggi che incontra, mettendone in luce non solo l’opera e il pensiero, ma anche e soprattutto il carattere e l’aspetto umano. Sono incontri che sollecitano riflessioni e interrogativi; sembra quasi che l’autore, nello scrivere, continui il confronto intellettuale col suo interlocutore o, comunque, che prenda spunto dalla stesura delle pagine per un’indagine esistenziale mai interrotta sulle ragioni della vita e della morte, del bene e del male, sul senso della poesia e, più in generale, della scrittura, sul chiaroscuro insito nelle azioni umane, sull'”intreccio interlocutorio e persino dialettico fra esistenza e destino” (pag. 94). Moretti, insomma, recupera il valore della letteratura come luogo per interrogarsi sul senso della storia, del tempo, della poesia, dei luoghi.
Un tratto caratteristico di Vito Moretti (che lui attribuisce al cantautore Francesco De Gregori) sembra quello di “fondere la politica (intesa nella sua declinazione più etica che partitica), le tematiche civili e quelle della storia con gli aspetti intimistici, privati e sentimentali del proprio universo”. Del resto, è evidente nelle opere del poeta e scrittore sanvitese la grande attenzione verso la realtà, verso i più deboli, verso le esistenze ai margini (“Il colore dei margini”), verso la giustizia sociale, l’onestà, verso l’umanità nel suo screziato complesso in cui Vito Moretti coglie e ravvisa sempre, però, la singolarità dell’individuo nella sua storia personale (Aeroporto di New York: “la folla d’ogni età e colore si faceva umanità e si apprestava a raggiungere i volti e i nomi che ciascuno recava nel proprio silenzio” pag. 141). Il poeta, lo scrittore, deve farsi carico di individuare gli aspetti e le varietà dell’esistenza quotidiana, il bello
e il brutto della storia, “scavare nel proprio intimo e mettere in relazione le cose che si vedono” con quelle che ordinariamente non si vedono “e che pure agiscono a determinare fisionomie e umori” (pag. 76). Solo così la voce del poeta può dirsi vera, autentica.
Infine, l’ultima parte ha all’inizio un sapore molto proustiano: la domanda di una giornalista ha sullo scrittore lo stesso effetto della madeleine su Proust, proiettando Moretti di nuovo indietro, tra le suggestioni e le tenerezze che ciascuno di noi porta nel cuore e che basta un niente a risvegliare. Dalla rievocazione del piccolo mondo sanvitese fatto di brezze, di ritagli di cielo e di bicchieri di cotto, parte una carrellata di avvenimenti nazionali e internazionali
che hanno segnato la storia geopolitica mondiale dagli anni sessanta alla fine del secolo scorso e che sembrano adombrare, però, dei cambiamenti gattopardeschi, il fallimento di tante utopie e un’amara disillusione di fondo. Il divenire, di cui Vito Moretti avverte in modo acuto lo scorrere inesorabile, si lenisce e si stempera con la coscienza e la conoscenza delle cose, con uno sguardo lungo sul passato e, soprattutto, trattenendo il più possibile con sé i segni di una vita, i luoghi, i paesaggi, i volti, le vicende. Meglio ancora se su una pagina bianca.

Nicoletta Fazio

 

Nota critica di Nicoletta Fazio alla silloge poetica “Il buio, la neve” (Book Editore) di Giuseppe Rosato. Il testo, scritto come relazione per la presentazione del libro a Villa Sirena, è stato pubblicato il 15 marzo 2018, giorno stesso dell’incontro, sulle pagine culturali del quotidiano “La Città” di Teramo.

In questa sua ultima raccolta poetica, edita da Book editore ad ottobre 2017, Giuseppe Rosato consegna già al titolo l’indicazione di quello che sarà il nucleo essenziale del libro. Del resto, chi ha familiarità con la poesia di Rosato sa quanto, nella sua scrittura, il buio e la neve siano immagini ricorrenti e simboliche, amate dall’uomo oltre che dal poeta. I due bisillabi, buio e neve, vengono accostati e si trovano posti su un medesimo piano, sua una stessa ideale linea spaziale, sebbene separati da una virgola, suggerendo una sorta di connubio, di comunione, tra i due termini e tra le immagini che evocano. Un connubio ossimorico, fortemente antitetico e oppositivo, com’è, del resto, caratteristica del linguaggio poetico di Giuseppe Rosato. Il buio e la neve ci trasportano in due dimensioni apparentemente contrastanti e speculari, che potrebbero definirsi sostanze polimorfiche, entità infinite e inesauribili dense di significati, di profondità, di nomi, di volti (su tutti, quello dell’amatissima Tonia), di tempi, in un gioco continuo tra la memoria e il presente, tra una consolatoria rassegnazione e paradossali lampi di arguzia e ironia, tra il desiderio di sottrarsi alla scrittura e la necessità di dire, di dirsi, di prolungare, in sostanza, l’illusione, il sogno, l’inganno del vivere. Ennio Flaiano diceva che “la poesia è una vita di scorta” e sulla scia di questa convinzione va la scrittura di Rosato, “come se” afferma l’autore in una recente intervista rilasciata alla Rai “la poesia potesse offrire una via di fuga, un’alternativa alle angustie della quotidianità, e come se i ricordi potessero risarcire di una perdita, di un’assenza.” La prima parte della raccolta contiene poesie inedite, scritte tra il 2009 e il 2016; la seconda, invece, ripropone alcune liriche già pubblicate nel 2005 nel volumetto “L’inguardabile vero”, edito dalla casa editrice Tracce e dalla Fondazione PescarAbruzzo. Nonostante il libro abbia una struttura unitaria e omogenea, nella prima parte, che si può accostare per temi e stile a “Le cose dell’assenza” (Book, 2012), si nota una vena più intima e raccolta, resa tale dal registro confidenziale che l’autore adopera nel costruire una sorta di dialogo con la donna amata, un dialogo che, a tratti, si fa quasi sussurro. La parola poetica, pur mantenendo inalterata la sua profondità semantica e la sua ricerca esistenziale, indugia sulla familiarità del “tu”, teso a svolgere e a dispiegare un universo di ricordi, di attese e di racconti contenuto nel segmento ai cui estremi sono il poeta e la donna amata. La formula “da te a me…”, “da buio a buio”, evidenzia e individua perfettamente i due attori della comunicazione, sottolineando l’origine e la destinazione dell’azione, il punto di arrivo e quello di partenza, come se solo ciò che attraversa questo segmento ideale, questo cono di luce, avesse importanza, dovesse illuminarsi alla ricerca di una prospettiva di senso, per riaffiorare dagli abissi liquidi della memoria.

Per le poesie inedite riunite nella prima parte del volume si potrebbe parlare di “poesia della convergenza, della ricongiunzione”. Non a caso in questa prima parte può ravvisarsi una struttura circolare, nella quale è il mare, l’acqua, l’elemento che veicola e unisce l’inizio con la fine, insieme all’uso del verbo “convergere” e del sostantivo “riconiugazione”. L’abbraccio che prende forma “nel pulviscolo d’aria e di vento” o nella linea indefinita di un orizzonte autunnale, settembrino, rappresenta un prodigio dagli effetti composti, misurati, appena percettibili, se non fosse per l’acqua che si “discompatta” e il mare che si increspa. Emblematica è la lirica che apre la raccolta e che inizia con la congiunzione “e”, che pare richiamare e riagganciarsi a un discorso precedente, pregresso, un discorso che riguarda sia il lettore sia la donna amata. Ci troviamo alle soglie di un autunno lontano, quasi immaginifico, l’autunno delle favole, come in un sogno. L’uso frequente dell’imperfetto (dicevi, ci attendeva, non lo sapevamo, si apriva…) accresce e alimenta la sensazione di essere immersi in un tempo remoto, lontano, intangibile. Del resto, i versi di Giuseppe Rosato vivono di una tensione quasi atemporale, in una sospensione che è tregua dal transito della vita, dalla labilità, dalla precarietà dell’esistenza.

La seconda parte della raccolta, invece, mi pare si leghi a uno dei libri più rappresentativi dell’opera del poeta frentano, “L’inganno della luce” (edito sempre da Book nel 2002), ed è imperniata maggiormente sulla dicotomia luce/buio, verità/inganno. Il verso si fa più distaccato, più affilato nell’esposizione ragionata, lucida, implacabile, del pensiero. Le “facce innumerevoli” della luce, come scrive il poeta, sottendono “l’inganno del vero che in ognuna apparve sempre escludendo il volto del suo intero”. La luce è ambigua, è un crudele gioco d’abbagli, di inquieti barlumi e fosfeni di zanzottiana memoria, è “l’inguardabile vero” dall’ingannevole sembianza, contro un buio “unico e sicuro”, “unico e vero”, vuoto e senza promesse, perciò sincero. Un divario inconciliabile, che restituisce una riflessione e un pensiero disincantato e, a tratti, distaccato, sull’esistenza e sulla capacità dell’uomo di pervenire alla verità, alla conoscenza: “la babele”, allora, diventa “salvezza dal vano/ accanirsi a cercare il passaggio/ o la scintilla almeno, il fosfene/che incrini il grande buio.” In tutta la raccolta, comunque, un paesaggio privo di ogni illusoria metafisica compone un quadro intimo, ma lucido, nel quale solo la memoria e la poesia rimarginano i lembi di un’intera esistenza, salvano “trasparenze d’altre vite”, inverni e stagioni lontani nel tempo e, soprattutto, il volto della donna amata. Un volto che – si badi bene – non compare mai (“il volto che non appare”), lasciando il posto, attraverso la figura retorica della sineddoche, agli occhi di lei, ora presenti, ora assenti, che permettono al poeta di non interrompere mai il contatto, l’amorosa corrispondenza, con Tonia. E, se l’amore “non bastò a farci salvi”, se l’amore non può opporsi a quello che il poeta chiama “lo scandalo dell’abbandono”, resta, però, “sempre un inverno/sepolto nella neve” e “un barlume di quel bianco vive/ di stagione in stagione.” La voce del poeta sembra votata alla rinuncia, la sfiducia lascia il posto alla resa, alla chiusura assoluta, sottolineata dal refrain dei sostantivi buio e assenza: “Da buio a buio le parole che non scrivo/perché dal foglio non ne affiori/una scaglia di luce, in questo buio/l’assenza resti assenza…”; il buio è “inconsutile”, compatto, denso, senza cuciture, chiuso a ogni estrema possibilità di fiducia nell’esistenza e nell’aldilà, mentre la luce si è assottigliata ancora di più, ridotta ormai a “estrema reliquia”, a “riverbero”, “barlume”, “luccichio”, fino a essere definita “malaluce”, a fronte di un sole “che non ha luce e non riscalda.”

L’insanabile dicotomia tra la vita e la morte, tra vivi e morti, in questa raccolta si inasprisce e si esaspera. L’incomunicabilità tra i due mondi è netta, inequivocabile, come ci ricorda la reiterazione dell’avverbio “qui”, che costella spesso i versi, a sottolineare l’hic et nunc della condizione umana, la sua separatezza, e quel divario che non si colma, “la distanza sonora” che di notte ancor di più “si compatta”: “a loro/ nessun varco concede/ la notte che per sempre ne distanzia.” La parola-sonda che Rosato muove a esplorare i territori della memoria e della poesia si arresta davanti alla volontà del poeta di sospenderla, di tacere, di non perpetrare alcuna illusione “perché dal foglio non ne affiori/una scaglia di luce”. Ed ecco, allora, che le parole, “come disgranate/da una ruota dentata”, si fanno sillabe e le sillabe silenzio, un silenzio candido e accecante come la neve, intatto, insonoro, sacro e non vinto come le impotenti, “avvinte” e “già vinte parole”.

Nicoletta Fazio

 

La nota critica che segue, redatta in occasione della presentazione della silloge poetica “Le cose” (ed. Tabula Fati) a Villa Sirena, il 30 novembre 2017, è stata pubblicata, per interessamento dell’autore, sulla Rivista di poesia “Frequenze poetiche”, n° 5, Anno II, gennaio 2018.

http://frequenzepoetiche.altervista.org/nicoletta-fazio-le-cose-vito-moretti/

https://ita.calameo.com/books/0048649399f4977b5ef2c

https://ita.calameo.com/read/0048649399f4977b5ef2c

 

Non stupisce che Vito Moretti dedichi un libro alle “cose”, visto che il suo sguardo poetico ha sempre abbracciato e accarezzato con affetto e delicatezza le cose, le piccole cose, quotidiane e amate, che appartengono alla sua dimensione di poeta, di scrittore e di uomo. Del resto per la poesia dell’autore sanvitese Giovanni Tesio ha parlato di “fenomenologia sentimentale”[1], e in questa fenomenologia, in questa rappresentazione emotiva del mondo in cui Vito Moretti vive, tra nostalgia e malinconia, un posto privilegiato occupano le cose.

Nella postfazione e nella quarta di copertina di questa nuova raccolta, l’autore ci  indica senza mezzi termini cosa sono “le cose” e ci rende manifesta soprattutto la differenza tra cose ed oggetti. Le cose raccontano la costruzione della nostra vita, diventano espressione efficace della nostra identità e del nostro quotidiano. Gli oggetti, di per sé amorfi, inanimati, freddi, diventano cose col tempo, perché invecchiano con noi e assorbono parte della nostra vita, facendosi, quindi, ricordo, memoria, ruga, lacrima, carezza. Le cose diventano parte di noi stessi, hanno il potere di ricordare e di rievocare, sono testimoni della nostra esistenza, anzi, sono esse stesse esistenza.

Con questa dichiarazione esplicita il poeta ci regala la chiave di lettura della raccolta e ci fa intendere anche che tale rivelazione – la distinzione tra oggetti e cose, appunto – non è la meta ultima della silloge, ma il punto di partenza, dal quale si dipanano ulteriori riflessioni.

Innanzitutto bisogna dire che questo è un libro dalla doppia anima: poetica, da un lato, filosofica, dall’altro, due anime che, però, si uniscono, si fondono, divenendo un tutt’uno. Le due dimensioni, del resto, convivono in Vito Moretti, che ha una formazione e un bagaglio culturale non solo letterario, ma anche filosofico. La poesia è un abito, una veste finemente orlata che copre e riveste un’architettura solida e complessa di pensieri, studi, ragionamenti e riflessioni.

Il riferimento alla filosofia è supportato, nel testo, dal ricorso frequente, in epigrafe, a diverse citazioni (che quasi “puntellano” le poesie) di filosofi antichi, moderni e contemporanei. Tra questi ultimi viene citato Remo Bodei, che ha trattato il rapporto oggetti/cose nel suo libro “La vita delle cose”, dove parla, appunto, delle cose che sono depositarie di significati affettivi, di senso, a fronte di una cultura, di una società, che le ha svuotate di significato, le ha depauperate di ogni valore, una società in cui vige su tutto la legge dell’usa e getta.

Ancor prima di Bodei, in verità, Rainer Maria Rilke aveva avviato un discorso sulle cose, intuendo quanto l’essenza dell’uomo e quella delle cose fossero intimamente legate e denunciando la perdita di valore e di senso degli oggetti, la perdita del valore intrinseco delle cose: “Il mondo si rattrappisce. Lo stesso fanno le cose” scrive nel 1925, sottolineando come l’umanità dell’uomo e la cosità delle cose siano oramai dissolte a fronte della produzione meccanica e dei tecnicismi. “Per i nostri avi, una casa, una fontana, una torre loro familiare, un abito posseduto, il loro mantello, erano ancora qualcosa di infinitamente di più che per noi, di infinitamente più intimo; quasi ogni cosa era un recipiente in cui rintracciavano e conservavano l’umano” prosegue, nello stesso scritto, il poeta tedesco, evidenziando lo scarto con la propria epoca: la modernità, per Rilke, partorisce oggetti puramente funzionali, senz’anima e senza memoria. Le cose, un tempo cresciute nella calma, nella ponderazione, nella cura artigiana, scompaiono rapidamente soppiantate dagli oggetti amorfi della manipolazione tecnica.

Ma torniamo alla raccolta poetica “Le cose”. E’ importante, per me, soffermarsi sugli eserghi che sono all’inizio del libro: qui Vito Moretti cita se stesso, riportando alcuni versi tratti da Principia, e cita Jorge Luis Borges, riprendendo dei versi dalla celebre poesia “Le cose”, tratta da Elogio dell’ombra.

Cosa ci suggerisce questa scelta operata dall’autore? Ci dice sostanzialmente due cose: la prima è che il libro che abbiamo tra le mani si inserisce nel solco della poetica di Vito Moretti, non crea una frattura, non è in contrasto con la sua produzione precedente. Anzi, citando la sua raccolta poetica immediatamente anteriore a “Le cose”, l’autore ci rivela anche che in Principia sono già in nuce, sono già presenti e visibili degli elementi, dei concetti, che verranno poi ripresi e sviluppati nell’opera attuale; il richiamo a Borges, invece, anticipa la riflessione esistenziale sull’uomo, sulla sua precarietà, sul tempo che passa, che è uno dei temi dominanti di questa raccolta.

Ha ragione Giancarlo Giuliani nell’affermare che “quelli di Vito Moretti sono versi carichi di potenzialità espansiva, oltre che espressiva”. Una potenzialità espansiva che parte innanzitutto da quella poetica delle piccole cose (cara all’autore), nella quale trovano posto e vengono nominate le cose (il nome, l’atto di nominare è per Vito Moretti un’operazione importantissima, che posiziona nello spazio e nel tempo l’oggetto, la persona, il fatto, dona loro vita) che appartengono e rimandano al mondo di memorie e di affetti dell’autore stesso, cose che sono simbolo della propria vicenda personale e che il poeta affida alla poesia affinché sopravvivano. Così il gelsomino, le rose, il profumo del vino bollito e delle arance, il nespolo, la collina, la cuccia del cane, la sciarpa, vanno a comporre un paesaggio intimo nel quale “la casa è la memoria che vi abita”[2]. Ogni cosa è tale non per sé, ma per il suo valore intrinseco, perché carica di significati, di memoria, di un valore e di un senso.

Le cose traghettano l’anima di chi le possiede o le ha possedute, emanano l’umanità di ciascuno, sono il simbolo dei legami, delle storie, dei transiti di ogni uomo. Le cose sono ganci tra persona e persona, tra fatti, tra sentimenti, tra passato, presente e futuro, in un’ideale staffetta che attraversa lo spazio e il tempo. Le cose hanno una voce, un richiamo, hanno un linguaggio che ciascuno interpreta a seconda della propria sensibilità e della propria storia, anche in base al rapporto con la cosa stessa.

Accade, poi, che in Vito Moretti le “cose” si dilatino, investendo una realtà più ampia, la società in cui viviamo, e abbracciando la storia non solo personale, ma anche collettiva. La Storia e la società odierna emergono con tutte le loro contraddizioni e le loro macchie, le loro iniquità e ingiustizie. Le cose diventano, dunque, segni per indagare e per ricercare il vero, il bello e il buono dei giorni, ma anche per rintracciare la menzogna, la non autenticità (l’intera raccolta potrebbe definirsi una lunga ricerca di senso e di verità).

Su questi paesaggi interiori proiettati nei versi c’è spesso la presenza dell’acqua, che compare in tante forme, più spesso come pioggia,  temporali, scrosci, oltre che come mare, ruscelli, rivoli, ma anche come mistura di acqua e terra, come fango. Mentre il mare è indice sempre di serenità (forse perchè appartiene all’orizzonte personale del poeta, che lega dunque al mare il periodo dell’infanzia e della giovinezza), la pioggia ne “Le cose” ha, secondo me, una doppia valenza: da una parte lava, purifica, riscatta, dall’altra diventa metafora del logorio del tempo, del suo inesorabile scorrere, di quel panta rei che porta via tutto, cose e persone. La pioggia è simbolo della nostra stessa deperibilità. “Gioca a rodere il tempo…”[3] scrive Vito Moretti, con la consapevolezza di chi sa che poche cose sopravvivono al tempo beffardo e, se resistono, è perché restano soprattutto dentro di noi. A proposito della caducità e della fragilità della nostra esistenza, è significativo come nel libro ricorrano spesso verbi come scivolare, svanire, smarrire, lasciare, che sia come suono che come senso rendono la fluidità dell’esistenza, la “liquidità” – potremmo dire, usando un termine attualissimo – di ogni cosa, ma anche l’incapacità, l’impotenza umana di afferrare la conoscenza, di avere risposte a tutto.

“Ho stupore delle cose…”[4] afferma Vito Moretti. Credo proprio che questa sia la risposta del poeta, l’antidoto allo scorrere del tempo, alla realtà piena di inquietudini e di smarrimenti: lo stupore, la meraviglia che bisogna riservare alle “cose”, piccole o grandi che siano, lo stupore che, attraverso la poesia, permette di arrivare là dove la ragione non riesce, abbandonandosi al mistero, all’emozione. Il linguaggio delle cose autentiche ci rivela, in fin dei conti, il senso e l’essenza della vita stessa, aprendo nuovi cieli e nuove prospettive, nuove conoscenze. Un nuovo domani. Perché, scrive Vito Moretti in Principia, “poi rimane lo sguardo sulle cose, quel niente che pure ci dà memoria, il rosso di ogni mondo”[5].

                                                                                            Nicoletta Fazio

 

[1]    Si veda, a proposito, la premessa a VITO MORETTI, La case che nen ze chiude, Tabula Fati, Chieti 2013, pag. 11.

[2]   Così nella lirica “Ogni cosa, tutto”, in “Le cose”, pag. 53.

[3]   In “Per me l’anno”, pag. 137.

[4]   In “Era così”, pag. 139.

[5]   V. MORETTI, Ho riletto Sbarbaro, i suoi…, in Principia, pag. 57.

LA LUMINOSA IMPERFEZIONE DEL BUIO
Intervista a Vito Moretti, autore del romanzo “Le ombre adorne”

L’intervista è stata pubblicata nel mese di ottobre 2016 sul quotidiano “Il Giornale d’Abruzzo”: http://ilgiornaledabruzzo.it/2016/10/03/la-luminosa-imperfezione-del-buio-intervista-vito-moretti/

Con il romanzo “Le ombre adorne”, edito dalla casa editrice Tabula Fati, Vito Moretti ha vinto il Premio letterario di narrativa edita “Vittoriano Esposito”, nella sezione “migliore autore abruzzese”. La cerimonia di premiazione si è svolta domenica 25 settembre a Celano. Scrittore, poeta in lingua e in dialetto, saggista, Vito Moretti è una delle voci più autentiche e rilevanti della letteratura abruzzese contemporanea.
Ci salutiamo con la gioia di due amici che si rivedono dopo tanto tempo, non nascondendo, nei gesti e nelle parole, la consuetudine di un’amicizia in verità giovane, ma spontanea, sincera e ricca di quelle sfumature profonde e intense che solo le ragioni del cuore sanno pronunciare e rendere evidenti. I suoi occhi sorridenti e curiosi trasmettono un’umanità bonaria e indulgente, un’ironia sagace, e le parole scorrono in fretta, senza seguire il canovaccio delle domande. Parole di un pomeriggio settembrino in un caffè, discorsi senza tempo che la mente appunta più in fretta della biro.

Com’è nata l’idea di questo romanzo?
Sicuramente c’è un filo che lega “Le ombre adorne” a “Il colore dei margini”, la mia raccolta di racconti edita nel 2014. Nei racconti, infatti, avevo proposto una carrellata sui mali del mondo contemporaneo e già allora avevo annotato come uno di questi fosse quello che Berto chiamava “il male oscuro” del Novecento. Nel romanzo, il protagonista, Diego, è un uomo che ha avuto una vita tranquilla, un amore ricambiato, un rapporto familiare normalissimo; ecco che, però, di colpo, si trova ad essere da solo. Questa sua condizione di solitudine si trasforma in una patologia psicologica. Intorno a questa malattia, a questo disagio, ho costruito l’intera vicenda.

Il titolo dice tanto di ogni libro: perché “Le ombre adorne”?
Le ombre sono le ombre della malattia, del disagio. Ma sono anche “adorne” perché credo che ogni uomo abbia la possibilità di uscire alla luce, che il buio non sia mai eterno, che ci sia il modo di redimersi, di ritrovare la gioia perfino nelle situazioni più difficili per riscoprire il bello della vita. Sono convinto che anche il muro più solido abbia una fenditura dalla quale si intravede la luce.

La storia è costruita come romanzo nel romanzo, con una narrazione a cornice talvolta talmente lieve e impercettibile da creare un vero e proprio incastro di anime tra personaggi lontani e sconosciuti a un tempo.
C’è un gioco tra due mondi: Diego, attraverso i racconti di una sconosciuta, rivive le vicende con la moglie, ricorda la propria infanzia, gli amori, i momenti particolari della sua vita. In qualche modo, tramite un misterioso quaderno, il romanzo di lei si intreccia con quello di lui e i due racconti diventano un tutt’uno, una sola storia.

Nel romanzo la lettura diventa strumento terapeutico, più che la scrittura. Leggere è aprirsi al
mondo, è ascoltare l’altro, è lasciare il proprio io per volgere gli occhi in un’altra direzione.
Sembra quasi che l’autore voglia indicare nella lettura la chiave per uscire dall’isolamento,
dalla solitudine…
E’ vero. Io ho sempre creduto nel ruolo fondamentale, formativo e culturale, della lettura. Per me, in generale, la letteratura salva, salva la bellezza delle parole, degli strumenti che trasmettono i concetti e la possibilità di redimersi. Perciò la bellezza salva, quando si fa tramite, attraverso le parole, di mondi possibili.

L’intera storia potrebbe leggersi come un viaggio alla ricerca di sé da parte del protagonista, una ricerca sì personale, ma anche universale, sull’essere umano. Questa indagine porta Diego a interrogarsi su se stesso, sulla fragilità umana, sul senso dell’amore, del dolore, della vita.
Credo forse di essere avvantaggiato perché vengo dalla poesia. Io mi interrogo e mi sono sempre interrogato attraverso la poesia. La poesia, per me, ha una funzione illuminante, si interroga, chiede, anche se non sempre può arrivare a delle conclusioni, non sempre può fornire delle risposte. Nel romanzo rifletto sulla morte, sulla vita, sull’amore… In tal senso, un ruolo importantissimo lo svolge il medico, che sprona e incoraggia il protagonista.

Possiamo dire, quindi, che il medico sia il tuo personaggio preferito?
Diego è un personaggio che mi appassiona perché soffre e torna alla vita attraverso una personale tribolazione. Però, in effetti, se dovessi dire a quale personaggio somigli, direi al medico, per la sua filosofia di fondo, per il carattere, per la sua saggezza interrogativa. Chi si interroga sulle cose ha in sé una saggezza che è ammirabile e che lo porta ad essere già a metà strada verso la verità.

Anche in questo romanzo la componente lirica occupa un ruolo di primo piano. Dunque, il Vito Moretti narratore non prescinde dal Vito Moretti poeta. C’è differenza nel tuo accostarti alla parola poetica rispetto alla narrazione in prosa?
No, non c’è nessuna differenza. Io sento la densità della parola allo stesso modo, sia che scriva una poesia sia la pagina di un racconto. Dante Maffia, durante la cerimonia del Premio “Vittoriano Esposito”, ha sottolineato come la carica lirica della mia scrittura sia evidente anche nelle opere di saggistica e di critica letteraria. Credo che nessuno di noi possa svestirsi dell’abito che indossa: e un poeta rimane se stesso sempre.

Nicoletta Fazio

Relazione scritta per la presentazione del libro di racconti “Il colore dei margini” di Vito Moretti (edizione Tabula Fati), svoltasi il 21 maggio 2015 a Lanciano. La nota è stata poi pubblicata, per interessamento dell’autore, ne “La Rivista Abruzzese”, N. 1, 2016.

E’ un’umanità brulicante di luci e di ombre, di disperazione e di speranza, quella che emerge e vive tra le pagine del nuovo libro di racconti di Vito Moretti. Un’ umanità dai tanti volti e dai tanti nomi, spesso dimessa e mortificata nella sua dignità, ma altrettanto fiera e caparbia, le cui vicende e le cui storie si sviluppano e si distendono
attorno agli interrogativi che da sempre accompagnano l’uomo nei suoi dubbi e nella sua ricerca esistenziale.
Vito Moretti conferma qui il suo essere uomo (poeta, scrittore) tra gli uomini, conferma la sua natura di zoon politikon, cittadino di un mondo di cui ben conosce vizi e mistificazioni e a cui tuttavia non desidera sfuggire, sentendosene, anzi, parte integrante e responsabile, pur nelle contraddizioni e nelle brutture della storia e della
contemporaneità e nei disagi esistenziali e quotidiani che l’uomo si trova ad affrontare. Si potrebbe dire che l’autore prenda spunto e si muova seguendo la celebre massima di Terenzio “Homo sum. Humani nihil a me alienum puto” (Sono un uomo. Nulla che sia umano mi è estraneo), proprio per il sentimento di humanitas che anima le pagine del libro e che si esprime, per dirla con Alfonso Traina, nel “riconoscere e rispettare l’uomo in ogni uomo”.
Dal piccolo e rassicurante borgo della sua San Vito e dai personaggi familiari e bonari che ci aveva fatto amare ne “La polvere sul cucù”, Vito Moretti si avventura ora nei territori magmatici e insidiosi di città più grandi, dall’atmosfera seriosa e metropolitana, conglomerati evocati e racchiusi nei termini di una solida e normale urbanizzazione (strade trafficate, tram, bus, e così via), o, come nello splendido racconto “Le cifre della luna”, nell’immensità inquietante e sconosciuta di un’Africa misteriosa e arcana. Quale che sia, comunque, lo spazio scelto, lo scrittore, il più
delle volte, ama disegnarlo e delinearlo con precisione, realizzando una mappa geografica, topografica, meticolosa e puntuale. Il realismo dello scrittore è anche nella sua voglia, nel suo bisogno costante di nominare cose, luoghi, persone, come se dare un nome potesse in qualche modo svelare un destino, essere “indizio di fatalità”, come a pag. 64, (“omen nomen”), oppure salvare dall’incessante scorrere del tempo, dall’irrefrenabile divenire, o ancora rafforzare il loro stesso esistere: “Le cose esistono se le nomini, se le chiami, se le trasformi in desiderio e se le fai succedere, se lasci che accadano nella tua vita e se un po’ le tolleri…” (pag. 18).
Nei dodici racconti contenuti ne “Il colore dei margini” si rinviene in maniera evidente una doppia tramatura: da una parte, appunto, lo sguardo attento dell’autore nei riguardi della realtà, dei risvolti sociali, della cronaca, delle problematiche più attuali e urgenti che opprimono i nostri giorni o che hanno caratterizzato il nostro passato
più prossimo; dall’altra, con uguale intensità e impareggiabile acume, Vito Moretti, da fine psicologo, entra nelle pieghe e nei recessi più profondi dei personaggi, svelandone e indagandone il mondo sommerso, l’intricato e spesso invisibile labirinto della mente e del cuore. Del resto, in una breve, ma splendida poesia contenuta ne “La case che ne ze chiude”, un piccolo cammeo in dialetto, Vito Moretti scrive:
“Ugnune tè nu mare
addò calà le rete,
ddu uocchie
ch’arihèmbie la jurnate
e na nustalgije
che chiame a caminarce dèndre,
a ppèrdece judizie
e lebbertà”.
Ciascuno, dunque, ha il proprio mare, privato e personalissimo, e con questo mare, con questa nostalgia che preme e incalza, e che viene da lontano, sono chiamati a misurarsi e a fare i conti i personaggi de “Il colore dei margini”.
E’ subito da dire che il concetto richiamato fin dal titolo (MARGINE è la parola chiave, il grimaldello che apre ogni racconto), la “MARGINALITA’”, dunque, assume valenze e sfumature diverse: se da una parte è innegabile il riferimento a un’emarginazione, a un’esclusione sociale (penso a Fatima, la prostituta, ai due anziani pensionati che non riescono a tirare a fine mese, a Madhib che è uno dei tanti migranti africani), dall’altra io credo (così mi è parso di cogliere) che i margini di cui Vito Moretti parla siano anche nelle ombre e nelle scuciture che ciascuno di noi si
porta dentro e che delimitano la nostra parte “segreta”, nascosta, sconosciuta spesso anche a noi stessi. Sono i perimetri entro i quali si mostrano senza reticenze le paure e le debolezze di ciascuno, si consumano i drammi interiori, prendono vita e si animano i silenzi, le attese, i disinganni.
Al di là, dunque, dello status sociale, abbiamo tutti delle “PERIFERIE DELL’ANIMA” dove si annida e si addensa l’essenza di ogni uomo, il nucleo originario e incorruttibile di ciascuno, nel quale è ancora possibile rinvenire barlumi
di AUTENTICITA’, di verità, che vengano a sciogliere e a liberare i personaggi dai nodi esistenziali, dalle paure, dagli scoramenti e dai drammi di una quotidianità spietata e troppo spesso indifferente. “Ognuno porta con sé un’impronta, un calco, un’attitudine che si può tradire e mettere da parte, ma non sostituire con altro né
azzerare fino al silenzio” (pag. 130) dice Nello, il protagonista de “La promessa delle cose”. Ciò che più l’autore denuncia e condanna è L’INDIFFERENZA, l’apatia, il non fare, sia per se stessi che per gli altri, insieme alla superficialità dei sentimenti, all’egoismo, all’incapacità di amare, a quell’analfabetismo affettivo di cui si sente
tanto parlare ai giorni nostri. Non a caso i personaggi dei racconti trovano spesso il loro riscatto quando si aprono al mondo, spogliandosi del loro carattere di “monadi”: così è per Andrea, che decide di recuperare il rapporto con la compagna, così è per Ada ed Enrico, per Lisa, che scelgono di non farsi abbrutire dalla solitudine, ma di innamorarsi di nuovo; così è per Bartolo, che comprende come si possa sopravvivere a se stessi e perpetrare le proprie esperienze e i fatti unici di una vita raccontandoli e tramandandoli al nipote. Ma c’è anche chi non può o non vuole
cambiare, come Matteo nel racconto “Nel doppio delle acque”, che rimane chiuso nella sua raggelante e profonda indifferenza, che significherà anche, per lui, l’assenza dell’amore, una scelta, dunque, di inevitabile solitudine e di solipsismo.
Ma questo è anche un libro che, a ben vedere, ci parla d’amore, dei tanti tipi di amore, e ogni racconto ce ne mostra una tipologia, ce ne svela un volto: l’amore negato, l’amore rubato, l’amore malato, l’amore comprato, l’innamoramento, l’amore senile, l’amore materno, l’amore filiale, e così via. A riprova che, per l’autore, l’uomo non può rinunciare alla sua dimensione sociale, ai rapporti interpersonali, agli incontri, nel libro si rincorrono e si incrociano tanti “tu”, tante vite che (per libera scelta? Per un’intrinseca e fatale necessità?: l’autore lascia al
lettore la riflessione e, per così dire, l’ardua sentenza) si uniscono o si separano, si cercano, si ritrovano o si perdono definitivamente.
C’è una particolarità dei personaggi di Vito Moretti: i personaggi minori non sono solo abbozzati, ma sono scalpellati e cesellati come i protagonisti, l’autore ne racconta la storia con dovizia di particolari e con amorevole attenzione nella consapevolezza, credo, che ogni vita vada raccontata allo stesso modo, con la stessa dignità e la stessa
passione, perché ognuna è unica e irripetibile, carica di poesia e di dolore contemporaneamente, e nella sua unicità è emblematica, didascalica, paradigmatica. Dunque lo scrittore deve per primo dare l’esempio e non tralasciare, “non mettere ai margini”, i personaggi cosiddetti secondari.
Giovanni Tesio ha parlato, per Vito Moretti, e, in particolare per la sua poesia, di “FENOMENOLOGIA SENTIMENTALE”; credo che questa definizione possa estendersi anche alla narrativa, considerando la “fenomenologia sentimentale” come “rappresentazione emotiva del mondo in cui si vive con tutti i sensi rivolti alle
corrispondenze ambientali in cui si rintanano la nostalgia e la malinconia del tempo, delle stagioni, dell’infanzia, del passato, dei giorni”. Anche nei racconti, infatti, c’è un reticolato di stati d’animo e di emozioni, di percezioni e di presagi, una vera e propria galleria di “ritratti di anime”, ma anche un indugiare poetico sulla vita, uno stupore
che dialoga con il paesaggio.
Per l’autore l’autenticità, la bellezza, la speranza stessa si sposano sempre con un ritorno, un’adesione, alla semplicità della natura e ai suoi ritmi. Nascono così momenti di grande suggestione poetica, come a pag. 25: “Tirò da un lato i capelli e lasciò che la luce dall’alto della finestra le coronasse il viso e le recasse il tepore dei suoi raggi: a Sara piaceva l’impazienza di quel sole che usciva dai mesi bui e freddi e che sollecitava la natura a gareggiare con i frutti nuovi della campagna e con i colori del cielo e dei fiori. E, spegnendo per un po’ l’attenzione, si sottrasse alle parole di
Matteo e allo strepito delle lusinghe, ricordò di nuovo la nonna Armina e si rivide su quei lontani campi di more e di papaveri, rammentò il buono dell’acqua pescata nel pozzo e le parve di udire ancora, in bocca, il pane ricolmo di marmellata, l’aspro succo delle susine”.
Per Vito Moretti la natura è poesia e la poesia è nella natura: “…Sara le disse della poesia, del dovere di sentirla sempre, ovunque, di crederla negli occhi di una volpe e nel sonno dei boschi, nella gioia e nella tristezza, nei passi che salgono sui monti e nell’abbraccio dei venti, nella terra che ha bisogno di cose e in quella che dà senso
alle parole e al tempo, all’amore e alla rinuncia” (pag. 20).
Già altri hanno sottolineato (Massimo Pamio, Giovanni D’Alessandro) come Vito Moretti, ne “Il Colore dei Margini” raggiunga alte vette di LIRICITA’, in particolare nelle descrizioni del paesaggio. Il CIELO di Vito Moretti non è mai distante o indifferente, ma partecipa sempre delle vicende dei personaggi, mostrandosi azzurro e terso, nel bene, grigio e rabbuiato, nel male. Un cielo benigno e profondamente LAICO ed ECUMENICO, nel quale vibra impercettibile un anelito di trascendenza: emblematico, a tal riguardo, e di struggente bellezza e poesia il brano a pag. 34. E’ un cielo questo, a cui i personaggi guardano alla ricerca di un conforto, di un segno, e, d’altra parte, è un cielo che guarda tutti, si apre a tutti, in maniera indistinta e, potremmo dire, misericordiosa. Non posso non pensare a MANZONI, “poeta religioso del paesaggio”, come lo definiva Luigi Russo, e alle pagine liriche nelle quali la natura partecipa sempre del soffio divino, accompagnando e quasi commentando in silenzio le vicende dei protagonisti. Oppure a Fogazzaro e al suo misticismo, alla comunione spirituale con la natura che è uno dei suoi tratti distintivi
(“Nihil sine voce est”). Anche nelle pagine di Vito Moretti la natura e il paesaggio hanno una voce (anzi, forse potremmo dire più voci) che sono eco di un infinito che vibra di commozione e di presagi. Un paesaggio che, nella sua bellezza, oltrepassa lo sguardo e i limiti umani, e che parla con il linguaggio sacro e arcano, ma nello stesso
tempo sorprendentemente semplice, degli elementi, del vento, degli alberi, degli astri, della luna. Vi sono, in Vito Moretti, lune universali, calate nel circuito della storia dell’umanità che ne scandiscono, con le loro fasi, tempi e ritmi, e ci sono poi lune private, che parlano a ciascuno di noi in un modo personale e intimo.
Due piccole digressioni e suggestioni letterarie: nel racconto “Nel sussurro dei domani”, a pagg. 109-110 c’è un passo bellissimo che merita di essere letto. Bene, ho citato prima Fogazzaro. Questo passaggio mi ha fatto tornare alla memoria il brano di Piccolo Mondo Antico quando Luisa, la protagonista, viene calamitata dalle acque magnetiche del lago e tentata anche lei al suicidio.
Un altro passo è nel racconto “Le cifre della luna”, quando Madhib vede per la prima volta il mare (pag. 51): un incontro pieno di suggestione e di delicata poesia, che fa pensare al Ciaula di Pirandello che scopre la luna, con la stessa meraviglia, lo stesso spaurito e immenso stupore.
I cieli di Vito Moretti, le lune, e l’intero paesaggio sono dunque proiezioni di un sentimento cristiano, che sappiamo che anima l’autore, e che gli consente di non piegarsi mai allo sconforto o al pessimismo. E’ la speranza il messaggio ultimo che arriva al lettore, una speranza che si deve tradurre in azione, in scelte da compiere, nel coraggio di vivere. “La partita, amico mio, non è mai finita se non si decide di riporre le carte nel cassetto” esorta un personaggio del libro, uno dei più belli. Alla negatività della storia e al tempo che spazza impietoso ogni cosa si oppone, però, con
tenacia la SCRITTURA, àncora e scoglio all’eterno fluire delle cose. Lo sa bene Bartolo che capisce che “quegli uomini, quelle esistenze, quei fatti – benché lontani in altre terre e in altri mondi – potevano tornare a vivere nel piccolo grembo del suo tempo e delle sue pazienze se li avesse trasformati in storie, in parole da dire, in voci
e pronunce: nella memoria, appunto, che azzerava il buio dei rovesci e che restituiva forma alle cose, misura a ciò che si era estenuato ed assopito nella bruma della decadenza e dei trapassi”. E lo sa bene il professore de “La curva dei singolari” che dice che “i libri, anzi le parole dei libri, quelle che vanno di foglio in foglio, che viaggiano nei secoli e nei millenni, che sanno correre all’indietro e in avanti, e che si incontrano poi qui, fra le mani di chi legge, sono la partita più importante, quella della bellezza, in cui si sente l’eco, la sinfonia maestosa dell’intero universo”.
Il panta rei, il divenire, si ancora in Vito Moretti alle parole, ai racconti, ai ricordi che diventano così memoria, storia da custodire, non dimenticando però di lasciare uno spiraglio aperto al futuro, alla ricerca sempre delle lune e dei cieli del domani.

Nicoletta Fazio