È una scelta coraggiosa e in controtendenza quella operata da Aldo Di Virgilio nel suo ultimo romanzo “Il pettirosso d’oro”, edito per le Edizioni Mondo Nuovo. A fronte di tanta produzione contemporanea – che si avvita su se stessa e che si imbriglia tra le maglie sempre più strette dell’autobiografismo, o nella quale il narratore abdica a favore di un solo personaggio, la cui voce e il cui punto di vista imperano nel corso del racconto – Di Virgilio si riscopre romanziere, affabulatore; ripesca l’arte dimenticata del narrare e imbastisce una storia compiuta, senza funamboliche frammentazioni o artifici o oziosi e forzati sperimentalismi che compiacciono gli scrittori ma che finiscono per negare al lettore il piacere dell’immaginazione e dell’immedesimazione. Ciò non vuol dire che “Il pettirosso d’oro” si annunci come un’opera di maniera, sorpassata, che segue e persegue il cliché di una classicità retrodatata e che appaga i palati dei più nostalgici. L’innovazione è uno dei punti di forza dell’ultimo lavoro di Di Virgilio, lavoro che si fatica a includere nell’etichetta piuttosto riduttiva di “romanzo”. Si parlerà, invece, di romanzi, che si agitano all’interno di una struttura unica, sapientemente architettata. Al di là della trama principale, infatti, – che vede come personaggio principale Michael Burton, un giovane pittore squattrinato che, in una Londra vittoriana fin de siècle, viene chiamato ad affrescare le volte delle gallerie del Bethlem Royal Hospital, l’ospedale psichiatrico più antico d’Inghilterra – convergono nella narrazione una serie di storie e di vicissitudini che riguardano Burton, ma delle quali egli non è sempre il diretto protagonista. Capita, ad esempio, che la prima parte, indispensabile prodromo dell’intera vicenda, sia dominata, governata dalla figura di Laura Grylls, madre di Michael e giovane figlia di un ricco commerciante londinese, la cui bellezza esotica, quasi ferina e primitiva, numinosa, diviene motivo delle attenzioni di Adam Gordimer, rampollo di un’ altrettanto ricca famiglia. Tra teatri, sale da tè, interni in penombra, Di Virgilio comincia a tessere una impercettibile tela di ragno, nella quale il lettore finisce inevitabilmente per rimanere invischiato e trascinato. L’atmosfera pacifica e rassicurante, infatti, è perturbata e increspata da un linguaggio che, serrato, inquieta e scombussola la realtà apparente, e nel quale ricorrono senza soluzione di continuità termini come “trappola”, “inganno”, “anomalia”, “fuorviante”, “imperfezione”, “ipocrisia”; parole che rimandano non a una unità ma a un pluralismo di significati. È come se l’autore invitasse il lettore a non fidarsi del velo di Maya che ammanta le cose, a leggere oltre e dentro un testo nel quale niente è come sembra, niente è come appare. Mentre Di Virgilio compone la sua struttura, infatti, ingannandoci con i comportamenti di Adam che si finge cavalier servente nei confronti di Laura, dall’altra parte prepara con cura la miccia di un ordigno che esploderà fragoroso alla fine della prima parte, nella quale, come ha detto il poeta Paolo Colacioppo, «si consuma una tragedia greca» i cui esiti e la cui portata investiranno, attraverso un effetto domino, l’intera vicenda. Così accade che l’inconsapevole Laura da dominatrice, da “Medusa” dai capelli corvini, come la definisce l’autore, si fa vittima, mentre Adam, da gentleman, si fa Plutone che insidia Persefone: si consuma, in una climax tensiva ascendente, il dramma imprevedibile, la catastrofe inappellabile che invade e pervade tutto il romanzo, che sfilaccia e slabbra l’equilibrio iniziale e che si rinnova nella figura del pettirosso d’oro, unica benevola presenza mentre all’interno di un Hyde Park desolato una ragazza somigliante alla Persefone di Dante Gabriel Rossetti viene violata da un Apollo dagli occhi così simili nel colore alla foglia di un ulivo. L’intreccio tra mito e storia, che si converte in Di Virgilio in mitologhema, conferisce a questo episodio una gravità e un peso tali che l’atto di Adam non è solo riprovevole ma costituisce un gesto di profanazione, di desacralizzazione della figura femminile, che ha sempre un’aura divina nel romanzo: una colpa che s’intrude e si intrufola a tal punto nella narrazione da avere il suo corrispettivo nella morte della diafana Liz Mac Farley, fanciulla ossessivamente amata da Burton, e sua modella, barbaramente uccisa da una mano sconosciuta tra le mura del Bethlem.
La prima parte del romanzo, dunque, non è solo preparatoria allo sviluppo successivo: essa è vento che scompiglia vele, destini ed esistenze, motore di un dramma familiare che avrà echi e riverberi sulla sorte di tanti personaggi, punto di non ritorno, poiché è da quella violenza che nascerà Michael, sebbene egli ne rimanga sempre inconsapevolmente estraneo eppure, nello stesso tempo, intimamente e psicologicamente coinvolto sin dalla tenera infanzia. Non sarà difficile per il lettore trovare tracce di anomalie nei comportamenti di Laura, anche nei confronti del figlio, bizzarrie o atteggiamenti che rendono il personaggio doppio, polimorfico, contraddittorio.
Ma è questo un aspetto che regola e caratterizza ogni personaggio del romanzo (a parte delle rare eccezioni, come la nonna di Burton e il di lui padre adottivo), ciascuno dei quali, come un giano bifronte, briga con una doppia maschera, quella reale e quella interiore, arrabbattandosi, di volta in volta, in un gioco di opposizioni e di camuffamenti. La percezione che ne deriva è schizofrenica, e contagia anche il narratore che, a parte delle incursioni nella prima persona singolare della parte centrale, è esterno ma assume su di sé la prospettiva dei personaggi, attraverso un “intuarsi” continuo nelle pieghe profonde delle molte anime che albergano nel racconto: così, nella prima parte, si è totalmente immersi nella maniacalità di Laura, nella seconda viviamo accanto a Michael e alla sua fidanzata Liz nel Bethlem Royal Hospital, assistendo anche agli orrori ai quali sono sottoposti i pazienti, nella terza siamo tutt’uno con lo sguardo indagatore, prosaico e crudo di Oliver Deck, un giovane commissioner in lunacy, chiamato a risolvere lo strano caso dell’assassinio di Liz.
Questa prospettiva schizofrenica, in linea con uno dei grandi temi del libro, che è, appunto, la follia, si riflette sul genere del romanzo; romanzo che non è ascrivibile a nessun genere preciso, ma che vira dal propriamente storico al dramma familiare e sociale, dal giallo al noir, dalla biografia di un pittore reietto alla storia d’amore. Tale congerie conferisce al romanzo un’icasticità marcata, un’aderenza alla realtà più vera e autentica di quella che si è soliti trovare nei romanzi spiccatamente di genere. L’abilità di Di Virgilio è quella di muoversi su piani diversi, di diventare burattinaio della vita dei suoi personaggi, di maneggiare, come i contafavole, aspetti molteplici e vari dell’esistenza delle sue creature, la cui storia deborda sempre dalla trama elementare del romanzo, dà luogo a curiosità, misteri e suggestioni, ammicca a un racconto altro, nascosto, segreto, che è materia buona per un convincente e altrettanto intrigante prosieguo.
Erede della tradizione cechoviana, Di Virgilio riprende il tema della follia non tanto per l’ambientazione del romanzo che, come si è detto, si svolge prevalentemente nel Bethlem Royal Hospital, quanto perché egli sparge i germi della pazzia – che si allarga a macchia d’olio, come un miasma, persino nella società, più volte definita “ipocrita” – anche tra i cosiddetti “normali”, rendendo di fatto nulla la distinzione tra insania e salubrità mentale (si pensi all’assurda fobia del dottor Bishop di incontrare i pazienti de visu, al piacere sadico che il dottor Hughes prova nel torturare i poveri ospiti del Bethlem, alle bambole dalla testa mozzata di Laura). L’occhio della follia è ovunque, nella parcellizzazione del corpo umano (l’autore non descrive mai i personaggi a figura intera, ma isola, quasi sempre, particolari elementi che ricorrono in modo ossessivo, come gli occhi e le chiome di Liz e di Laura), nel richiamo continuo a particolari e intensi profumi che inebriano, stordiscono a tal punto da far provare una dionisiaca ubriachezza che è simile a un venir meno o al perdere il ben dell’intelletto. Di Virgilio attinge nelle descrizioni a una tavolozza di colori praticamente illimitata, in un tourbillon di tinte e sfumature quasi imbizzarrite; e ogni colore è un umore, un personaggio, una profezia che sta per rivelarsi, il sigillo di una identità, l’indizio di qualcosa di eternamente vagheggiato, come il blu per Michael. Rimane, però, su tutti, l’oro del pettirosso, totem e amuleto di Laura, che lei stessa fa riprodurre in serie dai gioiellieri. Ed è nel pettirosso che risiede la chiave del giallo dell’assassinio di Liz.
Giuseppina Fazio
“Il pettirosso d’oro“ è disponibile nelle migliori librerie italiane, nei maggiori bookstore online e nelle librerie D’Ovidio, Barbati e MU di Lanciano (CH).
L’AUTORE:
Aldo Di Virgilio, nato a Chivasso nell’aprile 1968, risiede a Lanciano. Laureato in giurisprudenza, lavora nella pubblica amministrazione. Giornalista pubblicista, ha diretto per alcuni anni la rivista culturale on-line www.lasezioneaurea.info. Ha svolto anche il ruolo di caporedattore, editor e ghost writer presso Argentodorato Editore di Ferrara. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo le raccolte di racconti “La strategia del batticoda”, 1999, presso il sito LIBUK, Fazi Editore e “Sette piccoli fanti”, 2006, Carabba editore. Suoi romanzi sono “Il codicista”, 2017, “Amanita Phalloides”, 2018, “Lacrime nere” (insieme a Chiara Domeniconi), 2022, “Ovicodramma”, 2023, tutti editi sempre da Argentodorato Editore di Ferrara. Infine, con la stessa casa editrice ha dato alle stampe i saggi “Disseminazioni”, come orientarsi nel caos tempestoso delle parole”, 2019, e “Sordello da Goito e i rapporti con l’Italia Peninsulare”, 2021.