È una scelta coraggiosa e in controtendenza quella operata da Aldo Di Virgilio nel suo ultimo romanzo “Il pettirosso d’oro”, edito per le Edizioni Mondo Nuovo. A fronte di tanta produzione contemporanea – che si avvita su se stessa e che si imbriglia tra le maglie sempre più strette dell’autobiografismo, o nella quale il narratore abdica a favore di un solo personaggio, la cui voce e il cui punto di vista imperano nel corso del racconto –  Di Virgilio si riscopre romanziere, affabulatore; ripesca l’arte dimenticata del narrare e imbastisce una storia compiuta, senza funamboliche frammentazioni o artifici o oziosi e forzati sperimentalismi che compiacciono gli scrittori ma che finiscono per negare al lettore il piacere dell’immaginazione e dell’immedesimazione. Ciò non vuol dire che “Il pettirosso d’oro” si annunci come un’opera di maniera, sorpassata, che segue e persegue il cliché di una classicità retrodatata e che appaga i palati dei più nostalgici. L’innovazione è uno dei punti di forza dell’ultimo lavoro di Di Virgilio, lavoro che si fatica a includere nell’etichetta piuttosto riduttiva di “romanzo”. Si parlerà, invece, di romanzi, che si agitano all’interno di una struttura unica, sapientemente architettata.  Al di là della trama principale, infatti, – che vede come personaggio principale Michael Burton, un giovane pittore squattrinato che, in una Londra vittoriana fin de siècle, viene chiamato ad affrescare le volte delle gallerie del Bethlem Royal Hospital, l’ospedale psichiatrico più antico d’Inghilterra – convergono nella narrazione una serie di storie e di vicissitudini che riguardano Burton, ma delle quali egli non è sempre il diretto protagonista. Capita, ad esempio, che la prima parte, indispensabile prodromo dell’intera vicenda, sia dominata, governata dalla figura di Laura Grylls, madre di Michael e giovane figlia di un ricco commerciante londinese, la cui bellezza esotica, quasi ferina e primitiva, numinosa, diviene motivo delle attenzioni di Adam Gordimer, rampollo di un’ altrettanto ricca famiglia. Tra teatri, sale da tè, interni in penombra, Di Virgilio comincia a tessere una impercettibile tela di ragno, nella quale il lettore finisce inevitabilmente per rimanere invischiato e trascinato. L’atmosfera pacifica e rassicurante, infatti, è perturbata e increspata da un linguaggio che, serrato, inquieta e scombussola la realtà apparente, e nel quale ricorrono senza soluzione di continuità termini come “trappola”, “inganno”, “anomalia”, “fuorviante”, “imperfezione”, “ipocrisia”; parole che rimandano non a una unità ma a un pluralismo di significati. È come se l’autore invitasse il lettore a non fidarsi del velo di Maya che ammanta le cose, a leggere oltre e dentro un testo nel quale niente è come sembra, niente è come appare. Mentre Di Virgilio compone la sua struttura, infatti, ingannandoci con i comportamenti di Adam che si finge cavalier servente nei confronti di Laura, dall’altra parte prepara con cura la miccia di un ordigno che esploderà fragoroso alla fine della prima parte, nella quale, come ha detto il poeta Paolo Colacioppo, «si consuma una tragedia greca» i cui esiti e la cui portata investiranno, attraverso un effetto domino, l’intera vicenda. Così accade che l’inconsapevole Laura da dominatrice, da “Medusa” dai capelli corvini, come la definisce l’autore, si fa vittima, mentre Adam, da gentleman, si fa Plutone che insidia Persefone: si consuma, in una climax tensiva ascendente, il dramma imprevedibile, la catastrofe inappellabile che invade e pervade tutto il romanzo, che sfilaccia e slabbra l’equilibrio iniziale e che si rinnova nella figura del pettirosso d’oro, unica benevola presenza mentre all’interno di un Hyde Park desolato una ragazza somigliante alla Persefone di Dante Gabriel Rossetti viene violata da un Apollo dagli occhi così simili nel colore alla foglia di un ulivo. L’intreccio tra mito e storia, che si converte in Di Virgilio in mitologhema, conferisce a questo episodio una gravità e un peso tali che l’atto di Adam non è solo riprovevole ma costituisce un gesto di profanazione, di desacralizzazione della figura femminile, che ha sempre un’aura divina nel romanzo: una colpa che s’intrude e si intrufola a tal punto nella narrazione da avere il suo corrispettivo nella morte della diafana Liz Mac Farley, fanciulla ossessivamente amata da Burton, e sua modella, barbaramente uccisa da una mano sconosciuta tra le mura del Bethlem.

La prima parte del romanzo, dunque, non è solo preparatoria allo sviluppo successivo: essa è vento che scompiglia vele, destini ed esistenze, motore di un dramma familiare che avrà echi e riverberi sulla sorte di tanti personaggi, punto di non ritorno, poiché è da quella violenza che nascerà Michael, sebbene egli ne rimanga sempre inconsapevolmente estraneo eppure, nello stesso tempo, intimamente e psicologicamente coinvolto sin dalla tenera infanzia. Non sarà difficile per il lettore trovare tracce di anomalie nei comportamenti di Laura, anche nei confronti del figlio, bizzarrie o atteggiamenti che rendono il personaggio doppio, polimorfico, contraddittorio.

Ma è questo un aspetto che regola e caratterizza ogni personaggio del romanzo (a parte delle rare eccezioni, come la nonna di Burton e il di lui padre adottivo), ciascuno dei quali, come un giano bifronte, briga con una doppia maschera, quella reale e quella interiore, arrabbattandosi, di volta in volta, in un gioco di opposizioni e di camuffamenti. La percezione che ne deriva è schizofrenica, e contagia anche il narratore che, a parte delle incursioni nella prima persona singolare della parte centrale, è esterno ma assume su di sé la prospettiva dei personaggi, attraverso un “intuarsi” continuo nelle pieghe profonde delle molte anime che albergano nel racconto: così, nella prima parte, si è totalmente immersi nella maniacalità di Laura, nella seconda viviamo accanto a Michael e alla sua fidanzata Liz nel Bethlem Royal Hospital, assistendo anche agli orrori ai quali sono sottoposti i pazienti, nella terza siamo tutt’uno con lo sguardo indagatore, prosaico e crudo di Oliver Deck, un giovane commissioner in lunacy, chiamato a risolvere lo strano caso dell’assassinio di Liz.

Questa prospettiva schizofrenica, in linea con uno dei grandi temi del libro, che è, appunto, la follia, si riflette sul genere del romanzo; romanzo che non è ascrivibile a nessun genere preciso, ma che vira dal propriamente storico al dramma familiare e sociale, dal giallo al noir, dalla biografia di un pittore reietto alla storia d’amore. Tale congerie conferisce al romanzo un’icasticità marcata, un’aderenza alla realtà più vera e autentica di quella che si è soliti trovare nei romanzi spiccatamente di genere. L’abilità di Di Virgilio è quella di muoversi su piani diversi, di diventare burattinaio della vita dei suoi personaggi, di maneggiare, come i contafavole, aspetti molteplici e vari dell’esistenza delle sue creature, la cui storia deborda sempre dalla trama elementare del romanzo, dà luogo a curiosità, misteri e suggestioni, ammicca a un racconto altro, nascosto, segreto, che è materia buona per un convincente e altrettanto intrigante prosieguo.

Erede della tradizione cechoviana, Di Virgilio riprende il tema della follia non tanto per l’ambientazione del romanzo che, come si è detto, si svolge prevalentemente nel Bethlem Royal Hospital, quanto perché egli sparge i germi della pazzia – che si allarga a macchia d’olio, come un miasma, persino nella società, più volte definita “ipocrita” – anche tra i cosiddetti “normali”, rendendo di fatto nulla la distinzione tra insania e salubrità mentale (si pensi all’assurda fobia del dottor Bishop di incontrare i pazienti de visu, al piacere sadico che il dottor Hughes prova nel torturare i poveri ospiti del Bethlem, alle bambole dalla testa mozzata di Laura). L’occhio della follia è ovunque, nella parcellizzazione del corpo umano (l’autore non descrive mai i personaggi a figura intera, ma isola, quasi sempre, particolari elementi che ricorrono in modo ossessivo, come gli occhi e le chiome di Liz e di Laura), nel richiamo continuo a particolari e intensi profumi che inebriano, stordiscono a tal punto da far provare una dionisiaca ubriachezza che è simile a un venir meno o al perdere il ben dell’intelletto. Di Virgilio attinge nelle descrizioni a una tavolozza di colori praticamente illimitata, in un tourbillon di tinte e sfumature quasi imbizzarrite; e ogni colore è un umore, un personaggio, una profezia che sta per rivelarsi, il sigillo di una identità, l’indizio di qualcosa di eternamente vagheggiato, come il blu per Michael. Rimane, però, su tutti, l’oro del pettirosso, totem e amuleto di Laura, che lei stessa fa riprodurre in serie dai gioiellieri. Ed è nel pettirosso che risiede la chiave del giallo dell’assassinio di Liz.

Giuseppina Fazio

 

Il pettirosso d’oro è disponibile nelle migliori librerie italiane, nei maggiori bookstore online e nelle librerie D’Ovidio, Barbati e MU di Lanciano (CH).

 

L’AUTORE:

Aldo Di Virgilio, nato a Chivasso nell’aprile 1968, risiede a Lanciano. Laureato in giurisprudenza, lavora nella pubblica amministrazione. Giornalista pubblicista, ha diretto per alcuni anni la rivista culturale on-line www.lasezioneaurea.info. Ha svolto anche il ruolo di caporedattore, editor e ghost writer presso Argentodorato Editore di Ferrara. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo le raccolte di racconti “La strategia del batticoda”, 1999, presso il sito LIBUK, Fazi Editore e “Sette piccoli fanti”, 2006, Carabba editore. Suoi romanzi sono “Il codicista”, 2017, “Amanita Phalloides”, 2018, “Lacrime nere” (insieme a Chiara Domeniconi), 2022, “Ovicodramma”, 2023, tutti editi sempre da Argentodorato Editore di Ferrara. Infine, con la stessa casa editrice ha dato alle stampe i saggi “Disseminazioni”, come orientarsi nel caos tempestoso delle parole”, 2019, e “Sordello da Goito e i rapporti con l’Italia Peninsulare”, 2021.

          Lo scrittore Aldo Di Virgilio

Recensione di Nicoletta Fazio al romanzo “Partitura per pioggia” di Sabino De Bari, edito da Montag

 Il sentimento dell’amicizia è al centro del primo romanzo di Sabino De Bari, “Partitura per pioggia”, edito da Montag nel 2023. Lisa e Dario, come spesso accade anche nella vita, si incontrano nei corridoi dell’università e non si lasciano più. Il loro legame speciale, intessuto di quotidianità e riflessioni profonde, confidenze e complicità, parte da una chiacchierata sui libri e approda, infine, nelle ultime pagine, a un dialogo sull’importanza della scrittura e dei finali.

Una particolarità del romanzo, infatti, è quella di intrecciare la storia principale con quindici finali, scritti da Dario, che fa leggere il manoscritto proprio a Lisa. Sulla scorta di Calvino e del suo “Se una notte d’inverno un viaggiatore”, dove compaiono dieci incipit di diversi romanzi, De Bari tributa un omaggio allo scrittore sanremese, interrogandosi (e portando il lettore a interrogarsi) sul valore delle parole, sulla funzione della letteratura e sulla connessione tra letteratura e vita. “Ed è esattamente per questo che scrivo” dice Dario. “perché l’inchiostro ha il potere di cambiare i destini. Quando butti giù la tua versione della storia in qualche modo la crei davvero. E nessuno ci impedisce di credere che davvero quel finale possa essere possibile, se lo vogliamo. Mi piace anche pensare che quello che scrivo possa essere, come dire, predittivo – oltretutto è successo già un sacco di volte – e che tutto quanto sia ancora suscettibile di cambiamento…”.

Ne viene fuori una narrazione interessante, ben amalgamata tra le parti, originale, un’opera prima felicemente riuscita perché piena di sensi, spesso nascosti e non immediatamente evidenti e percepibili. Ed è proprio questa la forza del romanzo di Sabino De Bari, che è poi il potere della seduzione, anche in letteratura: saper giocare, con acume e intelligenza, non svelando subito intenti, significati e artifizi, non privando mai le pagine dei veli che l’ammantano di raffinato riserbo.

Con uno stile chiaroscurale e profetico, immersivo, ammaliante nell’uso sapiente della lingua e dei diversi registri, l’autore guida il lettore attraverso le vicende dei tanti personaggi presenti, tutti, in un certo senso, in cerca di un riscatto, di un orizzonte altro foriero di nuove possibilità, di rivincita e di rigenerazione. In realtà, “Partitura per pioggia” rappresenta da un lato l’affresco della miseria e della grandezza dell’uomo contemporaneo – o, forse, dell’uomo di ogni tempo – teso tra inquietudini e speranze, tra sogno e disillusione, tra manchevolezze e redenzione; dall’altro, è un viaggio affascinante e screziato alla ricerca della più sfuggente e inarrivabile delle emozioni: la felicità.

Nicoletta Fazio

 

Il romanzo è disponibile sul sito della casa editrice Montag https://www.edizionimontag.it/catalogo/partitura-per-pioggia/, in tutti gli store on-line e si può ordinare in ogni libreria.

L’AUTORE:

Sabino De Bari è nato a Molfetta nel 1975. È laureato in Lettere Moderne all’Università di Bari con una tesi in Letterature comparate in cui ha accostato la poesia francese a quella italiana, in particolare le opere di Paul Éluard e Sandro Penna, indagando il tema della felicità nel più vasto scenario della poesia contemporanea. Suoi racconti sono stati pubblicati sulla rivista letteraria “Inchiostro”. Ha ottenuto importanti riconoscimenti in concorsi letterari nazionali e internazionali, tra i quali “Asdovos”, “Rocco Carbone”, “Città di Grottammare”, “Scribo”, “Città di Seregno”, “Il giardino di Babuk – Proust en Italie”. Ha all’attivo la pubblicazione delle sillogi poetiche “Esterno pioggia” (Il Filo) e “Altri luoghi” (Leonida). Un suo racconto, La bellezza storta, è stato pubblicato nel volume antologico “Baresi per sempre – Viaggio emozionale nel cuore di Bari”, edito a maggio 2023 dalle Edizioni della Sera, a cura di Manlio Ranieri. Collabora come redattore con “Colori Vivaci Magazine”, per cui ha tenuto anche laboratori di scrittura creativa. “Partitura per pioggia” è il suo primo romanzo.

 

 

 

 

 

 

 

 

Recensione di Nicoletta Fazio al romanzo “La legge. La giustizia. Io.” di Monica de’ Rossi, edito da Europa Edizioni.

“Emma ha trent’anni, è alta, morbida, porta i capelli neri a caschetto come il personaggio dei fumetti Valentina ed è una bella donna, ma il suo vero punto di forza è il fascino bollente”. Questo l’incipit del romanzo “La legge. La giustizia. Io.” di Monica de’ Rossi, edito da Europa Edizioni, che introduce subito al lettore la protagonista della storia: Emma.

Emma, nonostante la giovane età, è un avvocato di successo, brillante e spregiudicata. Ha una sorella gemella, Irene, e le due vivono in simbiosi, legate ancor di più dal vuoto che si portano dentro: la madre Olga, una russa bella e raffinata, infatti, le ha rifiutate, costringendo anche il marito, succube della sua personalità forte ed egocentrica, a far crescere le figlie lontane da loro. Questa decisione non è dettata da motivi economici o di stringente necessità, tutt’altro – Olga e Carlo appartengono all’alta società romana e conducono un tenore di vita molto alto – e quindi la loro scelta risulta ancor di più deprecabile e scellerata. È l’egoismo di Olga a farla da padrone insieme al senso di possesso nei riguardi del marito, che “non voleva dividere con nessuno, nemmeno con il sangue del suo sangue. Lei doveva essere l’unica donna della sua vita…”. Olga “non era mai stata una figlia affettuosa, […] quando era piccola era fredda con tutti e non creava legami o amicizie, solo conoscenze di convenienza”.

Emma e Irene crescono, dunque, portandosi dietro una mancanza incolmabile. L’anaffettività della madre, la sua freddezza e la sua insofferenza le poche volte che è costretta a vedere le figlie segnano in modo indelebile l’interiorità delle due ragazze che, pur essendo gemelle, hanno un temperamento differente e reagiscono in modo opposto anche all’assenza dei genitori, come sottolinea l’autrice: “Irene era una bambina molto sensibile e fragile, voleva sempre stare con Emma e giocare con le bambole; sognava di diventare una donna bellissima e trovare il principe azzurro per riempire il vuoto che aveva dentro. […] Lei sapeva che sua mamma non l’aveva voluta, e il suo pensiero era sempre rivolto a ciò che le mancava e non a ciò che aveva. Emma invece cresceva con un carattere molto diverso, non desiderava affatto un principe azzurro, ma inseguiva la libertà e l’indipendenza. Pensava che, se suo padre non era stato capace di starle vicino, non lo sarebbe mai stato nessun altro”.

Un evento tragico e inaspettato sconvolge d’un tratto la vita di Emma: l’omicidio di Irene. Da questo momento in poi la narrazione si arricchisce dell’atmosfera misteriosa e fosca del thriller, conducendo il lettore per sentieri intriganti e oscuri dove dominano la brama di denaro, l’arrivismo, il potere, ma, soprattutto, la vendetta.

È interessante notare come evolve la psicologia dei personaggi man mano che ci si inoltra nella trama. Mentre Olga rimarrà sempre uguale a se stessa, dall’inizio alla fine, rigida e ferma sulle sue posizioni, immutabile e coerente nella sua incapacità di amare e di uscire dal guscio inviolabile del suo ego – addirittura rimane totalmente indifferente di fronte alla morte di Irene! – l’indole di Emma subirà un’evoluzione forse impercettibile, ma tale da sottolineare, in modo quasi provocatorio, il legame con la madre. Emma, infatti, a ben vedere, nella sua sete di giustizia, si rivelerà ben più spietata di Olga. “Il perdono non esiste…” afferma, mettendo in atto il suo piano diabolico, un piano che non contempla il rispetto delle regole, delle leggi, ma solo il perseguimento dell’unico obiettivo possibile: la vendetta feroce e completa. Anche nei riguardi della madre, che avrebbe bisogno del suo aiuto, Emma non avrà pietà: la compassione non è contemplata nel suo vocabolario, che conosce solo il codice inesorabile dell’”occhio per occhio, dente per dente” e l’ingiusta, disumana perfidia della privazione dell’amore materno. Di contro, Olga non si mostra mai tenera con la figlia, ma ha sempre un modo di porsi pretenzioso e superbo. “Se solo le avesse chiesto scusa dei tanti anni di rifiuto, se le avesse mostrato un po’ di affetto, forse avrebbe cambiato idea, invece…”: è sempre l’amore o, in questo caso, il non-amore a condizionare le scelte dei personaggi. Olga non si piega, fino a pagare a caro prezzo il suo atteggiamento altero e gelido. Se in lei la maternità è mortificata e annientata, non così è per la madre di Olga e nonna di Emma, Irina, che incarna nel romanzo la figura materna, dolce, premurosa e amorevole. E gli uomini? Anche dei personaggi maschili emerge una vasta gamma di caratteri, tra cui spiccano le personalità forti del nonno delle gemelle, Nicolai, e di Lucas, l’uomo che con amore e costanza riuscirà a conquistare la ribelle e riottosa Emma.

Con una prosa snella, ritmata, veloce, che non indugia in digressioni superflue, ma va dritta al cuore dell’azione, l’autrice consegna al lettore un romanzo avvincente e appassionante, a tratti carico di una forte sensualità, dove le venature di noir e di eros si amalgamano con la riflessione sull’amore, sulle potenzialità e i limiti dell’Io e sul confine sottile tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.

Nicoletta Fazio

 

“La legge, La giustizia, Io.”, edito da Europa Edizioni, è disponibile in formato cartaceo e in e-book in tutti gli store on-line e si può ordinare dal proprio libraio di fiducia:

https://www.amazon.it/legge-giustizia-Io-Monica-Rossi/dp/B0C3FQ729P

https://www.europaedizioni.com/prodotti/la-legge-la-giustizia-io-monica-de-rossi/

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https://www.mondadoristore.it/La-legge-La-giustizia-Io-Monica-De-Rossi/eai979122013908/

https://www.ibs.it/legge-giustizia-io-libro-monica-de-rossi/e/9791220139083

https://www.unilibro.it/libro/de-rossi-monica/la-legge-la-giustizia-io/9791220139083

 

L’AUTRICE

Monica De’ Rossi, nata a Bologna nel 1971, ha sempre lavorato con i numeri, ma ciò che ama di più sono le lettere. Ha coltivato il sogno nel cassetto di scrivere un romanzo e, con l’incoraggiamento del marito e del figlio, si è imbarcata in questa avventura che le ha permesso di esplorare lembi della fantasia a lei sconosciuti. Appassionata della natura, sia nelle camminate e nei pellegrinaggi che nelle avventure in mare, ama gli ampi spazi, montagne da scalare e mare aperto.

Monica de’ Rossi

Recensione di Nicoletta Fazio al romanzo di Monica De’ Rossi “Nella natura dello scorpione” (Altromondo editore) 

Che cos’è l’amore?

Questo il primo degli interrogativi che emerge dopo la lettura de “Nella natura dello scorpione” di Monica De’ Rossi, edito da Altromondo editore nel marzo 2023. Un romanzo che, fin dalle prime pagine, punta il dito sull’ampio e screziato ventaglio del genere umano e sui sentimenti, belli e brutti, che ognuno dona e riceve. La vita di Raffaele, il protagonista, è infatti condizionata non solo dalla morte del padre ma anche – e soprattutto – dalla carenza di affetto da parte della madre. In un ambiente culturalmente e socialmente degradato, il bambino si farà ragazzo e poi uomo recando sempre dentro di sé delle ferite mai rimarginate, un vuoto, una mancanza incolmabile, un dolore inespresso che si manifesta in atteggiamenti e scelte che rivelano rabbia, insoddisfazione, vendetta, senso di rivalsa per quanto a lui è stato negato: in primo luogo la serenità e il calore di una famiglia.

A dispetto della sua spavalderia e arroganza, Raffaele è “un contenitore di dolore”, come scrive l’autrice; di lui risaltano la simpatia insieme a una “spietata freddezza”, l’orgoglio, il disprezzo verso il genere femminile e il carattere, complesso e contraddittorio, pieno di ombre. Tutto ciò lo porta a crearsi una doppia vita, pulita da una parte, criminale dall’altra: “Si stava costruendo la vita pubblica di chi si guadagna da vivere onestamente facendo il garzone del supermercato […], ma di notte era un ladro e uno strozzino.”; “Di giorno ripudiava se stesso, si guardava allo specchio e si vedeva con gli occhi di sua moglie che lo considerava un uomo onesto e buono, ma quando scendeva la notte era come se calasse il sipario e vivesse un’altra vita. Era un’altra persona nello stesso corpo, senza pentimento e senza scrupoli”.

Centrale è la relazione tra Raffaele e le donne. L’amore nel romanzo viene declinato in tutte le sue sfaccettature. Più che di amore, si tratta spesso del suo contrario: possesso, opportunismo, puro piacere, egoismo. È un impulso forte, onnipresente, ma che rimane a livello epidermico. Raffaele “non capiva l’amore” e, quando lo incontra, non lo sa apprezzare. La figura limpida e delicata di Antonella – antitetica a quella fredda e cinica della madre e al personaggio calcolatore di Romina – suscita in lui addirittura un sentimento di disprezzo, di derisione. E sì che, in fondo, in maniera forse inconsapevole e di sicuro sbagliata, Raffaele l’amore lo cerca e lo cercherà fino alla fine, inseguendo l’illusione di averlo trovato. A dominare nel romanzo è la passione, una carnalità istintiva, infuocata, a volte cruda e animalesca. L’attrazione, l’eros, il desiderio corrono sulle pagine infondendo loro una forza voluttuosa e dirompente.

In un gioco perverso, sprezzante dei sentimenti altrui e che non conosce rispetto né dignità, anche le donne rivestono spesso un ruolo che non è solo di vittime ma anche, a loro volta, di carnefici. L’amore non trionfa, e i personaggi principali, per motivi diversi, non sono in grado né di riconoscerlo né di riceverlo né di sostenerlo. Eppure sia Raffaele con Antonella sia Diana con Max avrebbero una possibilità di riscatto, un’occasione di felicità, che però non sanno cogliere.

A essere mortificato non è solo l’amore di coppia, ma anche quello tra genitori e figli: legami negati e ridotti all’annientamento totale, come se il destino si divertisse a replicare una storia già vissuta.

Scritto con uno stile snello e un ritmo rapido e cadenzato, “Nella natura dello scorpione” si muove tra realismo, sfumature sottili e risvolti psicologici, in un’analisi attenta e lucida della società e un’esplorazione delle insondabili profondità dell’animo umano.

                                                                                     Nicoletta Fazio

 

Il libro è disponibile sul sito della casa editrice Altromondo al link https://www.altromondoeditore.it/libri/nella-natura-dello-scorpione/#informazioni_tab_
Si trova, inoltre, in tutti gli store on-line e si può ordinare in ogni libreria.

 

L’AUTRICE

Monica De’ Rossi, nata a Bologna nel 1971, ha sempre lavorato con i numeri, ma ciò che ama di più sono le lettere. Ha coltivato il sogno nel cassetto di scrivere un romanzo e, con l’incoraggiamento del marito e del figlio, si è imbarcata in questa avventura che le ha permesso di esplorare lembi della fantasia a lei sconosciuti. Appassionata della natura, sia nelle camminate e nei pellegrinaggi che nelle avventure in mare, ama gli ampi spazi, montagne da scalare e mare aperto.

Monica De’ Rossi

 

Natali bianchi

 

Da piccola indovinavo il periodo dell’anno in cui si sarebbe celebrato il Natale, perché la neve avvezza ai nascondimenti costruiva mura più alte.

Nessuno poteva convincermi del contrario. Ne avevo le prove.

 

Sui campi e sulle strade;

silenziosa e lieve,

volteggiando la neve

cade.

Danza la falda bianca

nell’ampio ciel scherzosa

poi sul terren si posa

stanca.

In mille immote forme

sui tetti e sui camini,

sui cippi e sui giardini,

dorme.

Tutto d’intorno è pace;

chiuso in oblio profondo

indifferente il mondo

tace.

 

“Cade la neve” è una delle poesie delle elementari che ricordo a memoria.

Sono nata in una notte bianca del dicembre del ’43, in un paese che ha orizzonti nel  mare Adriatico e nei monti della Maiella e del Gran Sasso, l’uno madre dell’altro, pietrificati per una mancata salvezza.

Tra le grida assordanti di un pianto mi torcevo come un’anguilla accanto al ventre di mia madre. Forse è per questo che non ho mai voluto assaggiarne una. Mi quietai insieme alla tramontana e, come tutti, cedetti alla vita senza rendermene conto.

Era una delle notti della Seconda guerra mondiale, un peccato mortale venduto dai tedeschi per trenta denari.

Negli anni a venire, la mia famiglia mi addomesticò all’essenziale e ad un tempo bastevole alle risposte brevi. Era necessario realizzare il presente. Starci dentro in ampiezza, fino ai limiti della sopravvivenza. Il problema più urgente aveva lo scopo di evitare altri lutti.

Il tempo pensato in lungo era riservato al Natale con il vino fermentato nelle botti, l’olio nuovo negli otri, la farina nelle madie, l’uva, i fichi e i melograni essiccati nelle soffitte. I miei erano contadini dal carattere compassionevole, come molti nostri parenti e vicini di casa. La compassione fa trasalire gli animi dinanzi alla propria sofferenza e a quella degli altri. Ci si aiutava a vicenda per la più semplice delle ragioni: nessuno doveva essere lasciato solo nella miseria. Ci sentivamo persi e frastornati nella condizione di un immenso non sapere. Ogni vita resa insignificante dalla guerra doveva tornare ad essere indispensabile.

Bisognava ritrovare l’innocenza di ciò che era giusto, buono, affidabile, casa.

La fede si rivelò la scelta migliore. Impalpabile nelle preghiere e nei salmi, tangibile nelle tradizioni come quella della Squilla, celebrata il giorno prima della Vigilia di Natale. Un cammino che si rinnova da quattrocento anni, muovendo dal centro del paese fino alla chiesa dell’Iconicella, come deciso dall’allora arcivescovo di Lanciano Paolo Tasso, in ricordo del percorso di Giuseppe e Maria verso Betlemme. Il suono della campana della torre civica ha inizio alle 18.00. Dopo un’ora risuonano quelle di tutte le altre chiese per condividere i primi auguri di buone feste. Da bambina li scambiavo a casa di mio nonno, un contadino dall’insolito portamento regale. Accoglieva figli e nipoti in cucina, scendendo da una scala ripida che portava alle camere da letto. Preannunciava il suo arrivo con passi lenti, calzati da scarpe scure.

Ai padri bisognava garantirne almeno un paio. Erano in cima alla lista delle priorità. Non averle impediva loro di uscire per assicurare il cibo a tutta la famiglia.

In fila dal più grande al più piccolo, mi inchinavo a baciargli la mano con il palmo rivolto verso il basso, in segno di rispetto e devozione. Mi sembrava così grande da riempire quasi l’intera stanza, specialmente quando cavava da una delle tasche della giacca le tanto attese 1000 lire che stringevo al petto, tondo di mandarini e fichi secchi. Dopo sposata il nonno alzò la posta fino a 5000 lire.

Le feste natalizie si trascorrevano da lui tra adempimenti ed emozioni che non cambiavano forma, rinnovando una tradizione senza ombra di dubbi.

I preparativi per la cena della Vigilia iniziavano la mattina presto. Sguardi risaputi di meraviglia aprivano la scena sulle nove pietanze servite a tavola, ciascuna a simbolo di ogni mese di gestazione. Se ne potevano preparare anche più di nove ma non una di meno nell’attesa della mezzanotte, quando ci si guardava con il cuore incapace di pensare.

Imbandita la tavola, i bambini dai sei ai dieci anni riponevano sotto i piatti di nonni e genitori lettere di ringraziamento per l’anno appena trascorso e di buon augurio per quello in arrivo.

Una tovaglia ricamata faceva da palco alle speranze. Nessun imprevisto avrebbe potuto interrompere la sequenza di un’abbondanza inghiottita con sublime piacere. Fedelini al tonno davano inizio alla cena. In ricordo dei defunti, la prima porzione veniva servita da mio nonno al “tecchio”, un grosso pezzo di legno posto a sfondo del focolare.

A seguire, in ordine sparso andavano in scena:

cappuccia con sarde e peperoni fritti;

lumache in tegami di coccio;

listelle di finocchi crudi;

baccalà comprato in centro, proposto in due varianti: arrosto o con sughetto di pomodorini e cipolla;

brodetto di pesce da moltiplicare miracolosamente all’occorrenza.

A chiudere, trionfo di dolci con crespelle fritte, taralli con uvata, calcionetti con ceci, frutta secca e mandarini.

Il tutto accompagnato spesso da un vino cotto dalla vita breve e dallo spirito liquido più del necessario.

Terminata la cena ci si recava nella casa accanto, dove un patriarca con baffetti e occhi di stelle leggeva preghiere in latino da un libriccino nero. Nell’incanto di una quieta ignoranza, si restava immobili in quella strana realtà partecipata. Il Bambinello veniva adagiato con cura su un piccolo altare stuccato di bianco, dimora di crocifissi e statuette di Santi trasferiti temporaneamente altrove. Il Patriarca aveva inciso sui mantelli in terracotta di ciascuno una falce e un martello, convinto che Cristo fosse un socialista.

Ci si congedava in preghiera sull’uscio della porta di una casa vicina, lasciata accostata tutta la notte. Da lì intravedevo il camino acceso e la tavola imbandita con formaggio, noci e fichi secchi, per confortare la Sacra Famiglia dalla fame e dal freddo.

Il giorno di Natale le donne della mia famiglia assistevano alla prima messa, per curare in tempo i preparativi per il pranzo. Sotto lo sguardo vigile di mia nonna paterna una gallina cuoceva nel brodo di pallottine cacio e uova, cardone e tagliolini fatti in casa. Poco dopo la si scomodava per servirla come seconda portata, omaggiandola con peperoni arrosto e vino bianco.

Panettoni e torroni erano lussi concessi ogni anno dall’unico zio emigrato in una città del nord.

Una poesia dedicata a Gesù bambino da un autore ignoto concludeva il tutto. Veniva recitata dalla zia di mio padre, che la ricordò a memoria fino al suo centesimo anno di età:

 

Quanda si ‘bbelle

dentr’ a sa grotte

mi simbre ’na stella rilucente

mezz’ a lu ciele de la mezzanotte.

Appena s’ ho sapute ca si ‘nnate

je pure me so fatte ‘na scappate

e mò che s’ho menute

chi ti ja dà?

Cumbitte, gianduje, pasticcine.

Ma tu nin ti li dinte,

nin li pù ciaccà.

Je sacce ch’è menute le Re ‘Mmage

dall’Uriente, da nu Paese

luntane luntane

e quanda cose ‘bbille t’hanne purtate:

ore, incense e mirre,

pe’ regalarle a Te,

povere Bambinelle!

Uh, non ti li fasce!

Tè, ecchete stu fazzulette, ammandete!

Abbenedice tutte quiste

che me stanne attorne!

E, quande la vita me’

addà finì,

purteme ‘mbracce a Signurì!

 

Irene Giancristofaro

 

Irene Giancristofaro    

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nota critica di Marcello Marciani al libro di poesie in dialetto lancianese “Bbendétte stu dijalètte” di Giuseppe Rosato.

In tutta la lunga, vasta produzione letteraria di Giuseppe Rosato, si sono da sempre evidenziati due grossi filoni, due approcci diversi ad esprimere il mondo e le sue sfaccettate articolazioni: la vena concettuale/filosofico/affettiva, che spazia dall’indignazione civile allo struggimento della mancanza, dall’inquietudine metafisica alla tenerezza nostalgica per condizioni e affetti scomparsi, pervasa da una malinconia e da un disagio esistenziale che avvolge tutti gli aspetti del vivere; e la vena ironica, o sarcastica e beffarda, verso ingiustizie storture e piccinerie sociali, spesso concentrata in piccoli libri dal gusto sapido o addirittura comico, in cui lo sguardo sornione dell’antico vignettista traduce i suoi segni caustici in versi irriverenti e in battute fulminanti.
Queste due anime della scrittura di Rosato, la seria e la faceta per così dire e semplificare, sono andate avanti per anni parallelamente, ognuna seguendo il suo percorso e, anche se spesso si sono incontrate in uno stesso libro, era sempre l’una a prevalere sull’altra e a conferire il carattere all’opera.
Ma con Bbdendétte stu dijalètte, l’ultima raccolta di poesie in dialetto frentano dello scrittore lancianese, accade qualcosa di diverso, perché con un equilibrio impareggiabile l’autore riesce a conciliare queste sue due anime poetiche donando ad ognuna una rilevanza, espressiva ed etica, di grande spessore, per cui l’opera risulta “leggera” e “comica” in molte pagine e dolente e amara in altre, ma nella sostanza ironia e malinconia, comico e tragico si amalgano grazie ad una scrittura che riesce ad esprimere tutta la variegata complessità dell’esperienza umana. Il titolo rimanda all’importanza fondamentale del dialetto, benedetto sia pure ironicamente, veicolo linguistico senza il quale tutta l’opera non esisterebbe. Potrebbe sembrare questa una precisazione ovvia, in quanto ogni forma espressiva esiste in quanto linguaggio, ma qui il discorso è proprio metalinguistico, all’interno della scelta dialettale e del suo declinarsi in parlata, mezzo di aggregazione di una comunità e, col tempo, suo archivio memoriale. Il poeta non solo parla per mezzo del suo dialetto lancianese, ma “viene parlato” da esso, si lascia attraversare da questa lingua, diventa uno dei tanti attori che abitano un mondo di tradizioni, proverbi, sentenze e motti dialettali restituiti, grazie all’energia del verso, alla loro ruspante vitalità, presta il suo io alle innumerevoli voci, ruvide o bonarie, di un coro, anche se nei testi più personali si distacca il suo timbro pensoso di solista. C’è, in questo scavare nella parlata dei padri, la ricerca di termini ed espressioni desueti, dimenticati, che affiorano alla memoria come improvvisi soprassalti sonori: esempi fra i tanti l’aggettivo vedellègne, che indica le budella fradice, o lu talorne, che è il piagnucolìo insistente, o l’ova hallàte (uovo gallato), che stimola un’acuta riflessione sulle antiche parole affondate, perdute nel tempo odierno che si gonfia ogni giorno di altri termini nuovi, che affollano l’orecchio ma non trovano posto nella mente. E pertanto il mondo cambia anche perché cambiano le parole per dirlo, ma questa considerazione, derivata dalla fenomenologia linguistica, si spoglia di ogni algida concettualità per declinarsi, nel verso di Rosato, in toccante e coinvolgente poesia. Tuttavia la ricerca lessicale non è soltanto archeologica, non si ferma al recupero dell’antica parlata, ma ingloba voci mutuate dall’odierno lessico tecnologico o finanziario, traducendole in lancianese con esiti stranianti e a volte esilaranti: si pensi all’amplefònne, versione abruzzese del’apparecchio acustico Amplifon, o al telefono cordeless che diventa curdelèsse, che rima ironicamente con port’apprèsse, o agli indici azionari lu Mibbe e lu Nasdàcche. Ma la volontà di adattare una lingua antica e sedimentata alle esigenze invadenti del presente genera un sovrappiù di amara ironia, una sorta di inappartenenza ai rituali e alle manie di un tessuto sociale che appare sempre più alienante, intollerante e incattivito. Se ne ha la prova in uno degli ultimi testi della raccolta, in cui la violenza tutta solo verbale di certe passate e rudi imprecazioni lancianesi non può trovare confronto nella realtà ben più crudele e ferina delle cronache attuali:

Mò t’allènte nu pacche, na sardelle,
nu scaffatone… O vû nu cazzuttòne?
Na vrettelìne, na salechejàte,
nu liscebbùsse, nu palijatòne,
na vattènte… Aspìtte, ca mò sigge,
mò ci-abbùsche, te ’n tòmme,
te facce nove-nove! Mò t’ammòlle
nu vangatòne che te fa’ vutà’
lu monne, che te fa’…

Quanta storie, na vote, lite-e-sciarre
e strille e quanta chiacchiere a lu vente
tutte le jurne, ammonte pe’ le ruve,
a lu spiazzètte, o dentr’a nu purtone.
Ma gna jèv’a fenì’? Foche de paje
che sbarejé. Mò cchiù! Tra patre, fije,
mòje, marite, ugne chi àtre, mò
n’se spreche na parole:
a-quanta pije e te s’a n-òme accìde.*

 

Marcello Marciani

* Da Bbendétte stu dijalette, pag. 49

Marcello Marciani presenta “Bbendétte stu dijalette” di Giuseppe Rosato a Villa Sirena il 22 febbraio 2020. (foto di Scribo – tutti i diritti riservati)

 

Giuseppe Rosato e Marcello Marciani a Castel Frentano, il 6 agosto 2019, in occasione del Premio “Di Loreto – Liberati”. (Foto di Scribo – tutti i diritti riservati)

FOCUS

DUE GRANDI PROTAGONISTI DELLA CULTURA ABRUZZESE CONTEMPORANEA

Giuseppe Rosato (Lanciano, 14 maggio 1932) ha insegnato Lettere e lavorato per la RAI, nei servizi culturali e nei programmi, e per riviste e terze pagine di quotidiani. Ha pubblicato libri di versi in lingua e in dialetto (a incominciare da “L’acqua felice”, Schwarz, Milano 1957), di narrativa, prose brevi, aforismi, oltre ad operine satiriche, epigrammatiche, parodistiche. Ha condiretto le riviste Dimensioni (1958-1974) e Questarte (1977-1986). Nel 1966 ha fondato con Ottaviano Giannangeli il Premio Nazionale “Lanciano” (poi “Mario Sansone”) di poesia dialettale. E’ stato segretario generale del Premio Flaiano di Pescara, dall’anno della sua fondazione fino al 1991. Ha vinto prestigiosi premi letterari, tra i quali il “Carducci” (1960) e il “Pascoli” (2010). Nel 2010, per la sua attività letteraria e culturale, è stato insignito del “Frentano d’Oro”.

Marcello Marciani è nato e risiede a Lanciano (CH). Ha pubblicato: “Silenzio e frenesia” (Quaderni di “Rivista Abruzzese”, Lanciano 1974), “L’aria al confino” (Messapo, Siena-Roma 1983), “Body movements”, con traduzione inglese a fronte di Amelia Rosselli (Gradiva Publications, Stony Brook-New York 1988), “Caccia alla lepre” (Moby DicK, Faenza 1995), “Per sensi e tempi” (Book, Castelmaggiore 2003), “Nel mare della stanza” (LietoColle, Faloppio 2006), “La corona dei mesi” (LietoColle,Faloppio 2012), “Rasulanne” (Cofine, Roma 2012), “Monologhi da specchio” (Robin, Torino 2017) e, infine, “Revuçégne”/”Rovistamenti” (Puntoacapo, Alessandria 2019). Suoi testi in dialetto frentano sono stati eseguiti negli spettacoli Mar’addó’ (1998-1999) e Rasulanne (2008/ 2012), dove ha partecipato anche come attore. Dal 1988 al 2008 è stato segretario organizzatore del Premio Nazionale di Poesia in Dialetto “Lanciano-Mario Sansone”. Ha ricevuto diversi premi, fra cui: Gabicce Mare, Matacotta, Nelle terre dei Pallavicino, Noventa-Pascutto, Pandolfo, Penne, Ischitella-Pietro Giannone, Salva la tua lingua locale, Giuseppe Malattia della Vallata, Poesia Onesta. È presente in riviste e antologie italiane e statunitensi con componimenti in italiano e in dialetto.

Recensione al romanzo di Giovanni Capurso, “Il sentiero dei figli orfani” (Alter Ego Edizioni), apparsa sul quotidiano “La Città” di Teramo il 19 luglio 2019.

Sul filo di una memoria vivida, che si affaccia sull’estate del 1990, in un piccolo paesino della Lucania, San Fele, Giovanni Capurso restituisce uno spaccato intenso e nostalgico di una società agricola e di un piccolo mondo esiodeo, sospeso nel tempo: “A San Fele il ritmo ciclico della natura resisteva a ogni cambiamento: in molti ancora si svegliavano al canto del gallo e finivano il lavoro al crepuscolo. Questo suo essere fuori dalla storia e dagli eventi, più che una maledizione, dalla gente schiva del posto veniva considerata una virtù”. Il paese, adagiato “come una farfalla su un fiore”, insegna ai suoi abitanti il valore della lentezza, dell’operosità, del silenzio. Il pudore dei sentimenti, l’inviolabilità della natura. Anche Savino, il più piccolo della famiglia “Trentadue”, come sono soprannominati in paese i Chieco, respira l’atmosfera semplice e laboriosa di casa sua, conosce la felicità nelle corse a perdifiato con il suo migliore amico l’Anguilla (uno dei tanti riferimenti dell’autore a Cesare Pavese, presente anche nell’esergo iniziale) e nei “piccoli riti” delle loro “liturgie bucoliche”, in mezzo a una natura intatta e selvaggia, che è tutto il suo mondo. Un mondo i cui confini gli vanno già stretti e che non gli basterà più dopo aver conosciuto Adamo, il misterioso forestiero che viene dal nord Italia, bravo a realizzare barche in miniatura, e Miriam, la ragazza per la quale prova i suoi primi turbamenti amorosi. Agli occhi di Savino, che brama di raggiungere il mare, che non ha mai visto, entrambi rappresentano una rivelazione, un segno di evasione, di libertà. Il punto focale della narrazione ruota attorno alla perdita, alla mancanza, come la parola “orfani” nel titolo suggerisce. Ogni personaggio reca con sé una ferita, un’assenza. Anche la terra è lacerata dal distacco di chi è andato via. Per Savino la scomparsa della nonna costituisce il suo primo incontro con la morte, la prima, dolorosa occasione di riflessione e di crescita interiore. Lo sguardo del ragazzo, “principiante della vita” ma già sensibile e attento lettore della realtà, incomincia a cogliere in profondità le sfumature e il senso dell’esistere: “Quella notte fece salire in superficie cose che fino a quel momento mi sembravano scontate, o che forse non avevo mai capito davvero; per esempio quanto mia nonna, donna di fede e discreta, si fosse sempre fatta amare da tutti, senza mai lamentarsi di niente, perché guardava ogni evento come il segno tangibile della volontà divina”.

A ben vedere, l’intera narrazione si snoda, sulla scia delle indagini a cui la filosofia e la letteratura greca ci hanno abituato, come una ricerca della identità dell’uomo (il famoso γνῶθι σεαυτόν del tempio di Apollo a Delfi) dalla quale non può prescindere una riflessione sulla religione, sul Divino e sul senso dell’esistenza. Ogni personaggio interpreta e vive a modo proprio la relazione con l’Assoluto, anche se nessuno nella storia è mai completamente distante da un sentimento panico di Infinito, per cui “tutti noi apparteniamo a questa grande divinità di cui siamo una microscopica parte”. “Quando Dio parla” sostiene Adamo “fa mormorare un fiume, scuote le fronde di un albero, irrompe con la sua eco in un canneto, fa battere le ali di un uccello, e con il vento si struscia su un covone di grano. Tutto si muove in sincronia quando Dio spezza il fragore del silenzio”. Immagini di grande poesia, indissolubilmente legate a quella natura che rende San Fele un paesaggio paradisiaco e mitico, come mitica è quell’estate da adolescente di Savino (quale lettore, del resto, non ne ha almeno una conservata nel suo cuore?).

La luce, grande protagonista del romanzo, a seconda dell’intensità dilata e contrae pensieri, ore ed emozioni e contribuisce a delineare un’atmosfera spesso rarefatta, indistinta, onirica, che contrasta con il realismo della narrazione. Avviene così che, di tanto in tanto, si aprano nel dettato degli squarci suggestivi, che sfuggono alla logica corrente per collocarsi in una dimensione altra, quella del sogno, del magico, dell’intuizione, delle percezioni extrasensoriali. Il tempo sospeso e ancestrale di San Fele, ad esempio, soggetto al divenire e all’eterno ritorno “degli eventi naturali e dei riti collettivi”, viene misurato da Savino “in foglie che si facevano spazio sui rami o vorticavano nell’aria e ancora dai nove rintocchi delle campane che annunciavano il mattutino e dai ventuno tre ore prima del tramonto”. Tornano le antiche leggende, e con esse, nella sera, riappaiono al ragazzo gli spiriti che, da piccolo, gli pareva “si nascondessero tra gli anfratti del borgo”; e, infine, una misteriosa eco di infinite e indefinite risonanze proviene dai suoni della natura: “Mi disse cose del tipo che bisogna affezionarsi agli alberi, distinguerne le voci quando il vento ne scarmiglia i rami e le foglie… La loro voce cambia e ti avvisa – se hai imparato a capirla – che la tempesta sta arrivando o che le nuvole cederanno al sereno. La voce degli alberi vive nel vento come quella di ogni altro elemento della campagna…”.

Nicoletta Fazio

 

Giovanni Capurso

Mane di Rolando D'Alonzo

OLTRE E DENTRO IL TEMPO: LA POESIA PENSANTE DI ROLANDO D’ALONZO

Una riflessione critica di Marcello Marciani su Mane (Tabula fati, Chieti 2018)

 

Quest’ultimo testo di Rolando D’Alonzo costituisce il terzo tempo di una ideale trilogia iniziata con Mitologia minore, opera pubblicata nel 2014, e proseguita con Lune, nel 2016. Pertanto, ad un intervallo biennale fra libro e libro, D’Alonzo approfondisce il suo percorso in versi fra le spirali della Storia e della Memoria, sia individuali che collettive, cogliendo di esse le continuità e le differenze rispetto ad un presente privo di riferimenti certi, lacerato e immemore. Ma la stessa concezione di “presente” in questo libro è superata, perché l’autore guarda alle vicende contemporanee con uno sguardo non certo limitato al dato fattuale, cronachistico, ma secondo una visione trasversale in cui presente e passato, echi e vestigia della cultura classica, rimandi alla grande poesia occidentale del secolo scorso e lessici mutuati dall’odierna comunicazione massmediale ed elettronica convivono disinvoltamente. Assorbendo infatti la lezione di alcuni maestri della poesia del novecento, come Pound ed Eliot, Rolando sa che il passato si vivifica e rinnova nel presente e viceversa il presente trasporta i vessilli millenari di epoche passate, anche quando sembra celarli. Le Gorgoni rinascono così nelle stragi di Kabul e di Gaza, le figure muliebri colte fra creme al retinolo e asfalti di periferie hanno i nomi di Tecla, Milesia, Cleobule. Tutto al tempo stesso è “contemporaneo” e “arcaico” in una compresenza spiazzante, in una narrazione prosodica che eleva a livelli di alta affabulazione linguistica, in un’aura mitica, l’esperienza del pensiero. Perché un dato è certo: questa scrittura nasce da un continuo, incessante pensiero, che permette di compattare insieme occasioni private e tragedie della Storia, slanci amorosi e invettive civili. È il pensiero a far sì che l’io poetante non si identifichi con l’ego del poeta, nemmeno quando ne svela le inquietudini e le fragilità, ma lo faccia vibrare in una voce corale da aedo, che riesce ad unire i vari registri dell’opera, sia il lirico che l’epico, sia il sublime che il beffardo. Afferma Francesco Paolo Memmo a proposito dell’opera di Ferdinando Falco, un grande poeta sperimentale sconosciuto al grosso pubblico e scomparso due anni fa: “La poesia (per Falco: ndr) non è espressione lirica dei sentimenti (la formula crociana studiata a scuola), non è esibizione di sé, non è contemplazione del proprio ombelico. La poesia è pensiero. Pensiero che si fa forma. Pensiero poetante. Pensiero che si nutre di tutto ciò che tocca, della nostra storia e di quella degli altri, delle radici che abbiamo coltivato, della cultura che ci ha formato, delle persone che abbiamo incontrato. Perciò la poesia può essere una cosa e un’altra: perché tutto alimenta il pensiero. Si procede non per sottrazione ma per accumulo. E anche il superfluo è necessario. Il caso irrompe nel disegno. Ed è inarrestabile il pensiero, nessuna gabbia può imprigionarlo” (*). Analisi questa del tutto applicabile all’opera di D’Alonzo, che non scaturisce da un impeto irrazionale ma da una incessante elaborazione speculativa, che tuttavia non si arena in algidi concetti ma si converte in suono, ritmo, parola che si dipana senza intrappolarsi in prefissate gabbie metriche ma seguendo un suo personalissimo andamento fluviale, poematico, che agilmente passa dalle terzine ai distici sfalsati, da stralci di esametri a sparsi endecasillabi e dodecasillabi per esprimere le sfaccettature e le vivaci divergenze di un pensiero che ogni campo del reale e dell’immaginario sostiene e trascina. A proposito si possono citare come esemplari due passi:

“In pensieri di vento se ne vanno in viaggio

gli alberi e mai abbandonano la soglia terrena (…)”

 

“Pensano le case nelle notti estive,

vuote conchiglie di opere addensate,

pensano in un procedere di tremiti

 

e vive scale, pensano nel cigolio di porte

alla divisione delle stanze, alle ramaglie

che serrano le nuvole all’ansito

delle forre (…)”

Ecco quindi che gli alberi, le case, pensano, in una sorta di animismo alimentato da una forza interiore che dovunque si espande. Ma non si creda con questo che ci si trovi dentro una poesia tutta cerebrale, intellettualistica, perché il pensiero è un’energia totale, che attraversa mente e corpo, entra anche nei sentimenti e nei sensi, fa sue le gioie e le ansie dell’amore, esplorato soprattutto nelle sezioni intitolate a nomi latini di donne, che hanno lo scopo di decantare lessicalmente il tema amoroso, di distanziarlo in un’aura classica eppure straniata, inquieta e inquietante, come accade in certi componimenti che sono incantate epifanie, fuori dal tempo e dallo spazio quotidiani eppure attraversate da tempi e spazi di più epoche intrecciate:

“Una porta tu sei che nella casa

tra oggi separa e l’altro ieri

tra questi passi che gli uomini

 

in me segreti lasciano su lane

e basole, senza rumore senza

distanze da coprire senza via

 

e le altre sconfinate rive le altre

porte da inventare di sera

in sera in riva a ogni mare.

 

Una porta tu sei che sempre

aperta alle dita in fiore cede

alle lucciole dei giorni brevi

(…)

Il lirismo intenso e acceso di questi versi, e di molti altri delle prime sezioni, dedicate alla luna e alla figura femminile, contrasta col timbro acre e caustico, da furiosa invettiva civile, di altri, dove si scatena tutto il sarcasmo e la rabbia dell’autore verso un mondo che non conosce altro valore, o meglio disvalore, se non quello del profitto e del tornaconto, anche a costo del cinismo più cruento ed efferato. Un vero manifesto in tal senso è il componimento La tavola: lungo 179 versi, occupa tutta la penultima sezione del libro come un poemetto a sé stante, eppure inserito in piena armonia nella struttura poematica delle altre parti dell’opera. Qui la reiterazione ossessiva dell’espressione o.k. si fa suono cupo di un tamburo tribale, di un occidente divenuto giungla d’interessi globalizzati, “venuti fuori per errore da una cassa/ proibita”. I rimandi precisi all’attualità, alle storture, alle torture e agli eccidi della
Storia recente, vengono comunque inseriti in un discorso di accorata pietas umana, con uno struggimento che pervade e lacera i versi finali:

Poi disponiamo le nostre piccole morti

disparati alla meno peggio, esequie

comprese, ai cantoni dei caseggiati

 

profili arrugginiti nell’ombra dei muri

in giri smunti che il sole in un gomito

dividono in altri successivi mondi

 

mattini notti a piedi da inventare

disperati fino all’ultimo respiro

fino al trasalire in mezzo al vetro

 

dell’ultima azzardata stella, noi

riflessi da una polvere di strada,

paglia che mai più si infoca.

Pertanto in quest’opera coesistono la lirica e l’epica, lo slancio amoroso e l’invettiva, la rivisitazione di lessici e moduli classici e l’addentrarsi negli slang e nei tic verbali odierni, l’armonia delle terzine e lo spezzettarsi della prosodia in forme metriche eccentriche: sembrerebbe un insieme incoerente e caotico e invece ogni aspetto tematico e formale s’incontra e torna nella dinamica di un “pensiero poetante” che sa orchestrare temi e stilemi diversi fra loro con il vigore addensante, imprevedibile e a suo modo miracoloso, della parola. Perché quel Mane del titolo, quel primo mattino in cui, secondo una dichiarazione dell’autore, la mente è ancora intrisa dei sopori e dei fantasmi della notte eppure si apre allo stupore di un nuovo risveglio, è pure il momento in cui il pensiero comincia ad articolarsi in parola, a scandirsi ancora una volta nelle più varie e contrastanti sillabazioni del dire.

Marcello Marciani

(*) dalla Prefazione di Francesco Paolo Memmo a Della morte del caso del superfluo e altre poesie dattiloscritte, di Ferdinando Falco, Edizioni Cofine, Roma 2018

PRESENTAZIONE DEL LIBRO DI POESIE "MANE" DI ROLANDO D'ALONZO - 12 DICEMBRE 2018

Marcello Marciani a Villa Sirena parla della poesia di Rolando D’Alonzo

Mane di Rolando D'Alonzo

Marcello Marciani

Relazione sul libro di Vito Moretti, “Gli anni venuti” (edizione Tabula Fati), presentato a Lanciano il 27 maggio 2018 e infine a San Vito il primo agosto dello stesso anno.

Dalle giaciture del tempo e della memoria prende avvio questo nuovo volume di Vito Moretti, “Gli anni venuti”. Già dal titolo, com’è sua consuetudine, l’autore indica con sottile raffinatezza che “gli anni venuti” non sono anni passati, conclusi, trascorsi, ma anni che non sono mai andati via; che continuano a vivere nelle maglie del personale presente dello scrittore, in un dialogo ininterrotto tra esperienza e quotidianità, tra logica e “piccole epifanie emotive”, con il desiderio e con l’intento di serbare il valore dei ricordi, rendendoli materia viva, per traghettarli oltre ogni dimensione temporale, nelle pagine che solo la scrittura e la letteratura sono in grado di plasmare e di eternare.

In questo senso, riferendomi all’ultima raccolta poetica di Vito Moretti, “Le cose”, anche gli anni venuti sono cose che raccontano la costruzione della sua vita, diventano espressione efficace della sua identità umana e di scrittore.
Del resto Vito Moretti conserva sempre un legame fluido con il passato. Basti pensare ad alcune sue opere come “La polvere sul cucù” o “La case che nze chiude”: la polvere rimane sul cucù, non va via, e la porta della casa resta aperta, a sottolineare che le tracce di ciò che è stato e di ciò che siamo stati permangono nel presente, soprattutto se la porta non viene chiusa, se si resta in ascolto dei sussurri della memoria, se non si recide il laccio con il nostro sostrato originario. “E capisco, allora” scrive l’autore, in un passo bellissimo a pag. 26, constatando l’inevitabile cambiamento
avvenuto intorno a sé negli anni “che tutto può essere ancora vivo se si lascia che le scalfiture e le abrasioni rodano soltanto in superficie e che le gobbe degli imbronciamenti e delle mestizie non crescano ad ostruire e a ricusare”.
Ho usato finora termini come ricordi, memoria. Ma va detto subito che “Gli anni venuti” non vuole sicuramente essere un memoriale né un’autobiografia, ma quasi un completamento, una prosecuzione naturale del pensiero dell’autore e della sua poetica. In essa lo scrittore riannoda i fili dell’esistenza, a partire dalla sua infanzia a San Vito fino ad arrivare alle soglie del nuovo millennio (il libro si chiude il 31 dicembre 1999), rintracciando tra le pieghe del tempo, dello spazio e delle esperienze vissute uno e più bagliori che illuminino e rivelino i significati più oscuri, le trame più enigmatiche, della propria e altrui vicenda umana. Mezzo secolo di storia, storia individuale e collettiva,
sociale e culturale, storia di paese e storia del mondo, che, insieme all’inevitabile bagaglio di cronache, umori, avvenimenti che portano con sé, si uniscono, si intrecciano e si compattano formando una campitura solida e densa di fatti, prospettive e sentimenti. “Gli anni venuti” rappresenta, dunque, un itinerario di vita e di scrittura, un approdo letterario che ben armonizza biografico e romanzesco. La letteratura, del resto, permette di dilatare i confini del vero e dell’ovvio, di giocare al limite della frontiera che divide i due piani dell’invenzione e del reale. Siamo davanti allo scrittore avveduto, sapiente, che con maestria racconta e si racconta, spesso tra le righe, riuscendo a
oltrepassare la cortina del mero orizzonte personale e a “fare del privato uno specchio dell’universo” (pag. 22).
Il libro è diviso sostanzialmente in tre parti e ha una struttura circolare. La circolarità, a mio parere, è data dal fatto che la narrazione si apre su San Vito e nell’ultimo capitolo torna, almeno inizialmente, a San Vito.
Il primo capitolo lo definirei una sorta di prologo lirico, un sentiero, un corridoio indispensabile per accedere al capitolo centrale, che rappresenta il cuore del libro. Il primo capitolo ha un titolo simbolico ed evocativo, “La terra che ha nome” (qui si aprono due riflessioni: da una parte penso all’antitesi con la Valsolda di Fogazzaro, che Carlo Bo definì “Il paese senza nome”, sottolineandone l’isolamento e la natura aspra e austera; Fogazzaro affermava addirittura che la Valsolda era “fuori del mondo conosciuto”; dall’altra voglio ricordare come l’atto, l’operazione del “nominare” sia importantissima in Vito Moretti, che con l’attribuire un nome posiziona nello spazio e nel tempo
l’oggetto, la persona, il fatto, dona loro vita ), si apre su San Vito, il paese che l’autore chiama affettuosamente e teneramente “la piccola mongolfiera che s’alza sulle nuvole rosse dei tramonti e che fa lieta la sera” e poi anche “il paese che resta cucito sotto la mia camicia e che ho portato addosso anche quando sono andato per altre strade”. San Vito, con il suo promontorio che “segnala i ritmi delle stagioni”, con il suo mare e la casa dell’infanzia, è un affresco stampato nell’anima e reca con sé soprattutto i volti cari della nonna – del resto è nonna Rosa il primo personaggio del libro – e dei genitori, espressione e sintesi di un piccolo mondo pennellato dall’autore con grande intensità lirica. E’ la terra, questa, che conserva i segni della scoperta più grande da parte di un giovanissimo Vito Moretti, “l’esperienza”, scrive l’autore, “che avrebbe trasformato la mia vita”: la scoperta, meglio ancora, l’incontro con la poesia. “Da quel momento”, continua Vito, cioè (aggiungo io) da quella che può definirsi una vera e propria folgorazione “– mi ripromisi di diventare nient’altro che poeta”.
Massimo Pamio nella prefazione sottolinea come San Vito sia insieme paese natale e paese del cuore, ma è anche – attenzione!- luogo letterario e per questo soggetto a revisioni, ripensamenti, trasformazioni. Il senso di appartenenza al suo paese è forte in Vito Moretti, che da una parte è uomo del borgo dall’altra cittadino del mondo, che si confronta con il mondo, mosso dalla curiosità della scoperta e della conoscenza, ma allo stesso tempo come Ulisse
desideroso sempre di tornare sui suoi passi, al suo piccolo angolo di terra, di storia e di affetti.
Del resto, anche l’Abruzzo è il mondo, “l’Abruzzo dai cieli azzurri e tersi che, all’improvviso, si rabbuiano in tempesta” è “nient’altro che il mondo”. Così afferma, infatti, lo scrittore Elio Bartolini a Vito Moretti (pag. 96). “Tu lo chiami Abruzzo e per me, invece, ha nome Friuli; ma è la realtà che ognuno si ritrova dentro e che usa per celare o per mettere in mostra, per asserire o per disconoscere. Noi siamo – se ci pensi – la sostanza e la forma del nostro stesso tratto di terra che, dalla nascita, percorriamo con i piedi e con gli occhi”.

Tutto il libro è costellato da un richiamo, da un ritorno costante alla terra. E qui in particolare l’autore sembra giustificare e rivelare le ragioni del primo capitolo, il partire da San Vito: non si può prescindere, nel bene e nel male, dal proprio paese, dalla propria terra perché, appunto, “noi siamo la sostanza e la forma” di quello stesso angolo dove siamo nati e cresciuti, da dove siamo partiti e ci siamo formati. Sul valore identitario del proprio paese, Vito Moretti tornerà anche nel secondo capitolo, dove il discorso si farà più squisitamente letterario, anche se non perderà mai i suoi connotati più umani ed emozionali. Rispondendo a Raffaele Nigro che afferma “La letteratura è un destino, non una scelta… noi non scegliamo nulla, ma dobbiamo immancabilmente fare i conti con il luogo – la terra – che ci ha chiamati”, Vito Moretti ribatte che “quella terra dove ognuno si riconosce – quel mondo di nomi e di ricordi, talvolta di scompigli e di caute obbedienze – è il nostro paese, forse anche l’altrove, cioè la misura che viene a riempire fino all’ultima ruga l’ansia del tempo e delle navigazioni, la fantasia che ci dà l’ebbrezza delle mete, il candore dei desideri” (pag. 66). Per lui – io credo – valgono le parole del poeta Giuseppe Bonaviri: “Restare radicati alla propria identità è ritrovarsi nelle parole che ci fanno liberi e maturi ed è l’esperienza che predispone l’animo alle passioni più sagge”.
La terra, dunque, per Vito Moretti, è àncora ma è anche libertà, la terra non limita e non costringe, ma è il nostro sostrato, quindi è la misura con cui leggiamo la realtà, il respiro intenso dei giorni che ci parla di nostalgie ma anche di desideri. Dal luogo natìo lo scrittore muove poi i suoi passi verso un altrove fatto di luoghi, di esperienze e, soprattutto, di incontri. Entriamo dunque nel capitolo centrale, il secondo: qui troviamo incontri “storici” – potremmo dire – d’eccezione, non solo letterari con i protagonisti della cultura e della letteratura del ‘900: da Mario Luzi ad Alberto Moravia, da Giorgio Bassani a Maria Luisa Spaziani, da Giuseppe Bonaviri a Luciano Luisi, da Mario Pomilio a Piero Bigongiari e così via, Andrea Zanzotto, Alberto Bevilacqua, Cecilia Gatto Trocchi, Giovanni Raboni, e tanti altri; ma è originale e significativo che uno spazio importante sia dedicato anche agli incontri con i cantautori come, ad esempio, Lucio Dalla, o più in generale con la canzone d’autore in genere (Guccini, Finardi, Bertoli, Zero, Venditti), in un periodo in cui (anni ’70) la canzone d’autore “dava concretezza ad un’esigenza profonda di contenuto, recuperando la funzione comunicativa della parola, facendone racconto immediato, emozione, specchio di cronaca e di esistenza” (pagg. 38-39). In realtà il libro cita spesso le canzoni per accompagnare i pensieri dell’autore, o i suoi ricordi, o fatti storici rilevanti, confermando l’importanza e la dignità che l’autore concede alla musica e ai cantautori.

Nel racconto dei suoi incontri, Vito Moretti apre come delle finestre, degli squarci nel tempo, delineando dei quadri e consegnando al lettore dei ritratti particolarissimi dei personaggi che incontra, mettendone in luce non solo l’opera e il pensiero, ma anche e soprattutto il carattere e l’aspetto umano. Sono incontri che sollecitano riflessioni e interrogativi; sembra quasi che l’autore, nello scrivere, continui il confronto intellettuale col suo interlocutore o, comunque, che prenda spunto dalla stesura delle pagine per un’indagine esistenziale mai interrotta sulle ragioni della vita e della morte, del bene e del male, sul senso della poesia e, più in generale, della scrittura, sul chiaroscuro insito nelle azioni umane, sull'”intreccio interlocutorio e persino dialettico fra esistenza e destino” (pag. 94). Moretti, insomma, recupera il valore della letteratura come luogo per interrogarsi sul senso della storia, del tempo, della poesia, dei luoghi.
Un tratto caratteristico di Vito Moretti (che lui attribuisce al cantautore Francesco De Gregori) sembra quello di “fondere la politica (intesa nella sua declinazione più etica che partitica), le tematiche civili e quelle della storia con gli aspetti intimistici, privati e sentimentali del proprio universo”. Del resto, è evidente nelle opere del poeta e scrittore sanvitese la grande attenzione verso la realtà, verso i più deboli, verso le esistenze ai margini (“Il colore dei margini”), verso la giustizia sociale, l’onestà, verso l’umanità nel suo screziato complesso in cui Vito Moretti coglie e ravvisa sempre, però, la singolarità dell’individuo nella sua storia personale (Aeroporto di New York: “la folla d’ogni età e colore si faceva umanità e si apprestava a raggiungere i volti e i nomi che ciascuno recava nel proprio silenzio” pag. 141). Il poeta, lo scrittore, deve farsi carico di individuare gli aspetti e le varietà dell’esistenza quotidiana, il bello
e il brutto della storia, “scavare nel proprio intimo e mettere in relazione le cose che si vedono” con quelle che ordinariamente non si vedono “e che pure agiscono a determinare fisionomie e umori” (pag. 76). Solo così la voce del poeta può dirsi vera, autentica.
Infine, l’ultima parte ha all’inizio un sapore molto proustiano: la domanda di una giornalista ha sullo scrittore lo stesso effetto della madeleine su Proust, proiettando Moretti di nuovo indietro, tra le suggestioni e le tenerezze che ciascuno di noi porta nel cuore e che basta un niente a risvegliare. Dalla rievocazione del piccolo mondo sanvitese fatto di brezze, di ritagli di cielo e di bicchieri di cotto, parte una carrellata di avvenimenti nazionali e internazionali
che hanno segnato la storia geopolitica mondiale dagli anni sessanta alla fine del secolo scorso e che sembrano adombrare, però, dei cambiamenti gattopardeschi, il fallimento di tante utopie e un’amara disillusione di fondo. Il divenire, di cui Vito Moretti avverte in modo acuto lo scorrere inesorabile, si lenisce e si stempera con la coscienza e la conoscenza delle cose, con uno sguardo lungo sul passato e, soprattutto, trattenendo il più possibile con sé i segni di una vita, i luoghi, i paesaggi, i volti, le vicende. Meglio ancora se su una pagina bianca.

Nicoletta Fazio

 

Nota critica di Nicoletta Fazio alla silloge poetica “Il buio, la neve” (Book Editore) di Giuseppe Rosato. Il testo, scritto come relazione per la presentazione del libro a Villa Sirena, è stato pubblicato il 15 marzo 2018, giorno stesso dell’incontro, sulle pagine culturali del quotidiano “La Città” di Teramo.

In questa sua ultima raccolta poetica, edita da Book editore ad ottobre 2017, Giuseppe Rosato consegna già al titolo l’indicazione di quello che sarà il nucleo essenziale del libro. Del resto, chi ha familiarità con la poesia di Rosato sa quanto, nella sua scrittura, il buio e la neve siano immagini ricorrenti e simboliche, amate dall’uomo oltre che dal poeta. I due bisillabi, buio e neve, vengono accostati e si trovano posti su un medesimo piano, sua una stessa ideale linea spaziale, sebbene separati da una virgola, suggerendo una sorta di connubio, di comunione, tra i due termini e tra le immagini che evocano. Un connubio ossimorico, fortemente antitetico e oppositivo, com’è, del resto, caratteristica del linguaggio poetico di Giuseppe Rosato. Il buio e la neve ci trasportano in due dimensioni apparentemente contrastanti e speculari, che potrebbero definirsi sostanze polimorfiche, entità infinite e inesauribili dense di significati, di profondità, di nomi, di volti (su tutti, quello dell’amatissima Tonia), di tempi, in un gioco continuo tra la memoria e il presente, tra una consolatoria rassegnazione e paradossali lampi di arguzia e ironia, tra il desiderio di sottrarsi alla scrittura e la necessità di dire, di dirsi, di prolungare, in sostanza, l’illusione, il sogno, l’inganno del vivere. Ennio Flaiano diceva che “la poesia è una vita di scorta” e sulla scia di questa convinzione va la scrittura di Rosato, “come se” afferma l’autore in una recente intervista rilasciata alla Rai “la poesia potesse offrire una via di fuga, un’alternativa alle angustie della quotidianità, e come se i ricordi potessero risarcire di una perdita, di un’assenza.” La prima parte della raccolta contiene poesie inedite, scritte tra il 2009 e il 2016; la seconda, invece, ripropone alcune liriche già pubblicate nel 2005 nel volumetto “L’inguardabile vero”, edito dalla casa editrice Tracce e dalla Fondazione PescarAbruzzo. Nonostante il libro abbia una struttura unitaria e omogenea, nella prima parte, che si può accostare per temi e stile a “Le cose dell’assenza” (Book, 2012), si nota una vena più intima e raccolta, resa tale dal registro confidenziale che l’autore adopera nel costruire una sorta di dialogo con la donna amata, un dialogo che, a tratti, si fa quasi sussurro. La parola poetica, pur mantenendo inalterata la sua profondità semantica e la sua ricerca esistenziale, indugia sulla familiarità del “tu”, teso a svolgere e a dispiegare un universo di ricordi, di attese e di racconti contenuto nel segmento ai cui estremi sono il poeta e la donna amata. La formula “da te a me…”, “da buio a buio”, evidenzia e individua perfettamente i due attori della comunicazione, sottolineando l’origine e la destinazione dell’azione, il punto di arrivo e quello di partenza, come se solo ciò che attraversa questo segmento ideale, questo cono di luce, avesse importanza, dovesse illuminarsi alla ricerca di una prospettiva di senso, per riaffiorare dagli abissi liquidi della memoria.

Per le poesie inedite riunite nella prima parte del volume si potrebbe parlare di “poesia della convergenza, della ricongiunzione”. Non a caso in questa prima parte può ravvisarsi una struttura circolare, nella quale è il mare, l’acqua, l’elemento che veicola e unisce l’inizio con la fine, insieme all’uso del verbo “convergere” e del sostantivo “riconiugazione”. L’abbraccio che prende forma “nel pulviscolo d’aria e di vento” o nella linea indefinita di un orizzonte autunnale, settembrino, rappresenta un prodigio dagli effetti composti, misurati, appena percettibili, se non fosse per l’acqua che si “discompatta” e il mare che si increspa. Emblematica è la lirica che apre la raccolta e che inizia con la congiunzione “e”, che pare richiamare e riagganciarsi a un discorso precedente, pregresso, un discorso che riguarda sia il lettore sia la donna amata. Ci troviamo alle soglie di un autunno lontano, quasi immaginifico, l’autunno delle favole, come in un sogno. L’uso frequente dell’imperfetto (dicevi, ci attendeva, non lo sapevamo, si apriva…) accresce e alimenta la sensazione di essere immersi in un tempo remoto, lontano, intangibile. Del resto, i versi di Giuseppe Rosato vivono di una tensione quasi atemporale, in una sospensione che è tregua dal transito della vita, dalla labilità, dalla precarietà dell’esistenza.

La seconda parte della raccolta, invece, mi pare si leghi a uno dei libri più rappresentativi dell’opera del poeta frentano, “L’inganno della luce” (edito sempre da Book nel 2002), ed è imperniata maggiormente sulla dicotomia luce/buio, verità/inganno. Il verso si fa più distaccato, più affilato nell’esposizione ragionata, lucida, implacabile, del pensiero. Le “facce innumerevoli” della luce, come scrive il poeta, sottendono “l’inganno del vero che in ognuna apparve sempre escludendo il volto del suo intero”. La luce è ambigua, è un crudele gioco d’abbagli, di inquieti barlumi e fosfeni di zanzottiana memoria, è “l’inguardabile vero” dall’ingannevole sembianza, contro un buio “unico e sicuro”, “unico e vero”, vuoto e senza promesse, perciò sincero. Un divario inconciliabile, che restituisce una riflessione e un pensiero disincantato e, a tratti, distaccato, sull’esistenza e sulla capacità dell’uomo di pervenire alla verità, alla conoscenza: “la babele”, allora, diventa “salvezza dal vano/ accanirsi a cercare il passaggio/ o la scintilla almeno, il fosfene/che incrini il grande buio.” In tutta la raccolta, comunque, un paesaggio privo di ogni illusoria metafisica compone un quadro intimo, ma lucido, nel quale solo la memoria e la poesia rimarginano i lembi di un’intera esistenza, salvano “trasparenze d’altre vite”, inverni e stagioni lontani nel tempo e, soprattutto, il volto della donna amata. Un volto che – si badi bene – non compare mai (“il volto che non appare”), lasciando il posto, attraverso la figura retorica della sineddoche, agli occhi di lei, ora presenti, ora assenti, che permettono al poeta di non interrompere mai il contatto, l’amorosa corrispondenza, con Tonia. E, se l’amore “non bastò a farci salvi”, se l’amore non può opporsi a quello che il poeta chiama “lo scandalo dell’abbandono”, resta, però, “sempre un inverno/sepolto nella neve” e “un barlume di quel bianco vive/ di stagione in stagione.” La voce del poeta sembra votata alla rinuncia, la sfiducia lascia il posto alla resa, alla chiusura assoluta, sottolineata dal refrain dei sostantivi buio e assenza: “Da buio a buio le parole che non scrivo/perché dal foglio non ne affiori/una scaglia di luce, in questo buio/l’assenza resti assenza…”; il buio è “inconsutile”, compatto, denso, senza cuciture, chiuso a ogni estrema possibilità di fiducia nell’esistenza e nell’aldilà, mentre la luce si è assottigliata ancora di più, ridotta ormai a “estrema reliquia”, a “riverbero”, “barlume”, “luccichio”, fino a essere definita “malaluce”, a fronte di un sole “che non ha luce e non riscalda.”

L’insanabile dicotomia tra la vita e la morte, tra vivi e morti, in questa raccolta si inasprisce e si esaspera. L’incomunicabilità tra i due mondi è netta, inequivocabile, come ci ricorda la reiterazione dell’avverbio “qui”, che costella spesso i versi, a sottolineare l’hic et nunc della condizione umana, la sua separatezza, e quel divario che non si colma, “la distanza sonora” che di notte ancor di più “si compatta”: “a loro/ nessun varco concede/ la notte che per sempre ne distanzia.” La parola-sonda che Rosato muove a esplorare i territori della memoria e della poesia si arresta davanti alla volontà del poeta di sospenderla, di tacere, di non perpetrare alcuna illusione “perché dal foglio non ne affiori/una scaglia di luce”. Ed ecco, allora, che le parole, “come disgranate/da una ruota dentata”, si fanno sillabe e le sillabe silenzio, un silenzio candido e accecante come la neve, intatto, insonoro, sacro e non vinto come le impotenti, “avvinte” e “già vinte parole”.

Nicoletta Fazio