Natali bianchi

 

Da piccola indovinavo il periodo dell’anno in cui si sarebbe celebrato il Natale, perché la neve avvezza ai nascondimenti costruiva mura più alte.

Nessuno poteva convincermi del contrario. Ne avevo le prove.

 

Sui campi e sulle strade;

silenziosa e lieve,

volteggiando la neve

cade.

Danza la falda bianca

nell’ampio ciel scherzosa

poi sul terren si posa

stanca.

In mille immote forme

sui tetti e sui camini,

sui cippi e sui giardini,

dorme.

Tutto d’intorno è pace;

chiuso in oblio profondo

indifferente il mondo

tace.

 

“Cade la neve” è una delle poesie delle elementari che ricordo a memoria.

Sono nata in una notte bianca del dicembre del ’43, in un paese che ha orizzonti nel  mare Adriatico e nei monti della Maiella e del Gran Sasso, l’uno madre dell’altro, pietrificati per una mancata salvezza.

Tra le grida assordanti di un pianto mi torcevo come un’anguilla accanto al ventre di mia madre. Forse è per questo che non ho mai voluto assaggiarne una. Mi quietai insieme alla tramontana e, come tutti, cedetti alla vita senza rendermene conto.

Era una delle notti della Seconda guerra mondiale, un peccato mortale venduto dai tedeschi per trenta denari.

Negli anni a venire, la mia famiglia mi addomesticò all’essenziale e ad un tempo bastevole alle risposte brevi. Era necessario realizzare il presente. Starci dentro in ampiezza, fino ai limiti della sopravvivenza. Il problema più urgente aveva lo scopo di evitare altri lutti.

Il tempo pensato in lungo era riservato al Natale con il vino fermentato nelle botti, l’olio nuovo negli otri, la farina nelle madie, l’uva, i fichi e i melograni essiccati nelle soffitte. I miei erano contadini dal carattere compassionevole, come molti nostri parenti e vicini di casa. La compassione fa trasalire gli animi dinanzi alla propria sofferenza e a quella degli altri. Ci si aiutava a vicenda per la più semplice delle ragioni: nessuno doveva essere lasciato solo nella miseria. Ci sentivamo persi e frastornati nella condizione di un immenso non sapere. Ogni vita resa insignificante dalla guerra doveva tornare ad essere indispensabile.

Bisognava ritrovare l’innocenza di ciò che era giusto, buono, affidabile, casa.

La fede si rivelò la scelta migliore. Impalpabile nelle preghiere e nei salmi, tangibile nelle tradizioni come quella della Squilla, celebrata il giorno prima della Vigilia di Natale. Un cammino che si rinnova da quattrocento anni, muovendo dal centro del paese fino alla chiesa dell’Iconicella, come deciso dall’allora arcivescovo di Lanciano Paolo Tasso, in ricordo del percorso di Giuseppe e Maria verso Betlemme. Il suono della campana della torre civica ha inizio alle 18.00. Dopo un’ora risuonano quelle di tutte le altre chiese per condividere i primi auguri di buone feste. Da bambina li scambiavo a casa di mio nonno, un contadino dall’insolito portamento regale. Accoglieva figli e nipoti in cucina, scendendo da una scala ripida che portava alle camere da letto. Preannunciava il suo arrivo con passi lenti, calzati da scarpe scure.

Ai padri bisognava garantirne almeno un paio. Erano in cima alla lista delle priorità. Non averle impediva loro di uscire per assicurare il cibo a tutta la famiglia.

In fila dal più grande al più piccolo, mi inchinavo a baciargli la mano con il palmo rivolto verso il basso, in segno di rispetto e devozione. Mi sembrava così grande da riempire quasi l’intera stanza, specialmente quando cavava da una delle tasche della giacca le tanto attese 1000 lire che stringevo al petto, tondo di mandarini e fichi secchi. Dopo sposata il nonno alzò la posta fino a 5000 lire.

Le feste natalizie si trascorrevano da lui tra adempimenti ed emozioni che non cambiavano forma, rinnovando una tradizione senza ombra di dubbi.

I preparativi per la cena della Vigilia iniziavano la mattina presto. Sguardi risaputi di meraviglia aprivano la scena sulle nove pietanze servite a tavola, ciascuna a simbolo di ogni mese di gestazione. Se ne potevano preparare anche più di nove ma non una di meno nell’attesa della mezzanotte, quando ci si guardava con il cuore incapace di pensare.

Imbandita la tavola, i bambini dai sei ai dieci anni riponevano sotto i piatti di nonni e genitori lettere di ringraziamento per l’anno appena trascorso e di buon augurio per quello in arrivo.

Una tovaglia ricamata faceva da palco alle speranze. Nessun imprevisto avrebbe potuto interrompere la sequenza di un’abbondanza inghiottita con sublime piacere. Fedelini al tonno davano inizio alla cena. In ricordo dei defunti, la prima porzione veniva servita da mio nonno al “tecchio”, un grosso pezzo di legno posto a sfondo del focolare.

A seguire, in ordine sparso andavano in scena:

cappuccia con sarde e peperoni fritti;

lumache in tegami di coccio;

listelle di finocchi crudi;

baccalà comprato in centro, proposto in due varianti: arrosto o con sughetto di pomodorini e cipolla;

brodetto di pesce da moltiplicare miracolosamente all’occorrenza.

A chiudere, trionfo di dolci con crespelle fritte, taralli con uvata, calcionetti con ceci, frutta secca e mandarini.

Il tutto accompagnato spesso da un vino cotto dalla vita breve e dallo spirito liquido più del necessario.

Terminata la cena ci si recava nella casa accanto, dove un patriarca con baffetti e occhi di stelle leggeva preghiere in latino da un libriccino nero. Nell’incanto di una quieta ignoranza, si restava immobili in quella strana realtà partecipata. Il Bambinello veniva adagiato con cura su un piccolo altare stuccato di bianco, dimora di crocifissi e statuette di Santi trasferiti temporaneamente altrove. Il Patriarca aveva inciso sui mantelli in terracotta di ciascuno una falce e un martello, convinto che Cristo fosse un socialista.

Ci si congedava in preghiera sull’uscio della porta di una casa vicina, lasciata accostata tutta la notte. Da lì intravedevo il camino acceso e la tavola imbandita con formaggio, noci e fichi secchi, per confortare la Sacra Famiglia dalla fame e dal freddo.

Il giorno di Natale le donne della mia famiglia assistevano alla prima messa, per curare in tempo i preparativi per il pranzo. Sotto lo sguardo vigile di mia nonna paterna una gallina cuoceva nel brodo di pallottine cacio e uova, cardone e tagliolini fatti in casa. Poco dopo la si scomodava per servirla come seconda portata, omaggiandola con peperoni arrosto e vino bianco.

Panettoni e torroni erano lussi concessi ogni anno dall’unico zio emigrato in una città del nord.

Una poesia dedicata a Gesù bambino da un autore ignoto concludeva il tutto. Veniva recitata dalla zia di mio padre, che la ricordò a memoria fino al suo centesimo anno di età:

 

Quanda si ‘bbelle

dentr’ a sa grotte

mi simbre ’na stella rilucente

mezz’ a lu ciele de la mezzanotte.

Appena s’ ho sapute ca si ‘nnate

je pure me so fatte ‘na scappate

e mò che s’ho menute

chi ti ja dà?

Cumbitte, gianduje, pasticcine.

Ma tu nin ti li dinte,

nin li pù ciaccà.

Je sacce ch’è menute le Re ‘Mmage

dall’Uriente, da nu Paese

luntane luntane

e quanda cose ‘bbille t’hanne purtate:

ore, incense e mirre,

pe’ regalarle a Te,

povere Bambinelle!

Uh, non ti li fasce!

Tè, ecchete stu fazzulette, ammandete!

Abbenedice tutte quiste

che me stanne attorne!

E, quande la vita me’

addà finì,

purteme ‘mbracce a Signurì!

 

Irene Giancristofaro

 

Irene Giancristofaro