Relazione sul libro di Vito Moretti, “Gli anni venuti” (edizione Tabula Fati), presentato a Lanciano il 27 maggio 2018 e infine a San Vito il primo agosto dello stesso anno.
Dalle giaciture del tempo e della memoria prende avvio questo nuovo volume di Vito Moretti, “Gli anni venuti”. Già dal titolo, com’è sua consuetudine, l’autore indica con sottile raffinatezza che “gli anni venuti” non sono anni passati, conclusi, trascorsi, ma anni che non sono mai andati via; che continuano a vivere nelle maglie del personale presente dello scrittore, in un dialogo ininterrotto tra esperienza e quotidianità, tra logica e “piccole epifanie emotive”, con il desiderio e con l’intento di serbare il valore dei ricordi, rendendoli materia viva, per traghettarli oltre ogni dimensione temporale, nelle pagine che solo la scrittura e la letteratura sono in grado di plasmare e di eternare.
In questo senso, riferendomi all’ultima raccolta poetica di Vito Moretti, “Le cose”, anche gli anni venuti sono cose che raccontano la costruzione della sua vita, diventano espressione efficace della sua identità umana e di scrittore.
Del resto Vito Moretti conserva sempre un legame fluido con il passato. Basti pensare ad alcune sue opere come “La polvere sul cucù” o “La case che nze chiude”: la polvere rimane sul cucù, non va via, e la porta della casa resta aperta, a sottolineare che le tracce di ciò che è stato e di ciò che siamo stati permangono nel presente, soprattutto se la porta non viene chiusa, se si resta in ascolto dei sussurri della memoria, se non si recide il laccio con il nostro sostrato originario. “E capisco, allora” scrive l’autore, in un passo bellissimo a pag. 26, constatando l’inevitabile cambiamento
avvenuto intorno a sé negli anni “che tutto può essere ancora vivo se si lascia che le scalfiture e le abrasioni rodano soltanto in superficie e che le gobbe degli imbronciamenti e delle mestizie non crescano ad ostruire e a ricusare”.
Ho usato finora termini come ricordi, memoria. Ma va detto subito che “Gli anni venuti” non vuole sicuramente essere un memoriale né un’autobiografia, ma quasi un completamento, una prosecuzione naturale del pensiero dell’autore e della sua poetica. In essa lo scrittore riannoda i fili dell’esistenza, a partire dalla sua infanzia a San Vito fino ad arrivare alle soglie del nuovo millennio (il libro si chiude il 31 dicembre 1999), rintracciando tra le pieghe del tempo, dello spazio e delle esperienze vissute uno e più bagliori che illuminino e rivelino i significati più oscuri, le trame più enigmatiche, della propria e altrui vicenda umana. Mezzo secolo di storia, storia individuale e collettiva,
sociale e culturale, storia di paese e storia del mondo, che, insieme all’inevitabile bagaglio di cronache, umori, avvenimenti che portano con sé, si uniscono, si intrecciano e si compattano formando una campitura solida e densa di fatti, prospettive e sentimenti. “Gli anni venuti” rappresenta, dunque, un itinerario di vita e di scrittura, un approdo letterario che ben armonizza biografico e romanzesco. La letteratura, del resto, permette di dilatare i confini del vero e dell’ovvio, di giocare al limite della frontiera che divide i due piani dell’invenzione e del reale. Siamo davanti allo scrittore avveduto, sapiente, che con maestria racconta e si racconta, spesso tra le righe, riuscendo a
oltrepassare la cortina del mero orizzonte personale e a “fare del privato uno specchio dell’universo” (pag. 22).
Il libro è diviso sostanzialmente in tre parti e ha una struttura circolare. La circolarità, a mio parere, è data dal fatto che la narrazione si apre su San Vito e nell’ultimo capitolo torna, almeno inizialmente, a San Vito.
Il primo capitolo lo definirei una sorta di prologo lirico, un sentiero, un corridoio indispensabile per accedere al capitolo centrale, che rappresenta il cuore del libro. Il primo capitolo ha un titolo simbolico ed evocativo, “La terra che ha nome” (qui si aprono due riflessioni: da una parte penso all’antitesi con la Valsolda di Fogazzaro, che Carlo Bo definì “Il paese senza nome”, sottolineandone l’isolamento e la natura aspra e austera; Fogazzaro affermava addirittura che la Valsolda era “fuori del mondo conosciuto”; dall’altra voglio ricordare come l’atto, l’operazione del “nominare” sia importantissima in Vito Moretti, che con l’attribuire un nome posiziona nello spazio e nel tempo
l’oggetto, la persona, il fatto, dona loro vita ), si apre su San Vito, il paese che l’autore chiama affettuosamente e teneramente “la piccola mongolfiera che s’alza sulle nuvole rosse dei tramonti e che fa lieta la sera” e poi anche “il paese che resta cucito sotto la mia camicia e che ho portato addosso anche quando sono andato per altre strade”. San Vito, con il suo promontorio che “segnala i ritmi delle stagioni”, con il suo mare e la casa dell’infanzia, è un affresco stampato nell’anima e reca con sé soprattutto i volti cari della nonna – del resto è nonna Rosa il primo personaggio del libro – e dei genitori, espressione e sintesi di un piccolo mondo pennellato dall’autore con grande intensità lirica. E’ la terra, questa, che conserva i segni della scoperta più grande da parte di un giovanissimo Vito Moretti, “l’esperienza”, scrive l’autore, “che avrebbe trasformato la mia vita”: la scoperta, meglio ancora, l’incontro con la poesia. “Da quel momento”, continua Vito, cioè (aggiungo io) da quella che può definirsi una vera e propria folgorazione “– mi ripromisi di diventare nient’altro che poeta”.
Massimo Pamio nella prefazione sottolinea come San Vito sia insieme paese natale e paese del cuore, ma è anche – attenzione!- luogo letterario e per questo soggetto a revisioni, ripensamenti, trasformazioni. Il senso di appartenenza al suo paese è forte in Vito Moretti, che da una parte è uomo del borgo dall’altra cittadino del mondo, che si confronta con il mondo, mosso dalla curiosità della scoperta e della conoscenza, ma allo stesso tempo come Ulisse
desideroso sempre di tornare sui suoi passi, al suo piccolo angolo di terra, di storia e di affetti.
Del resto, anche l’Abruzzo è il mondo, “l’Abruzzo dai cieli azzurri e tersi che, all’improvviso, si rabbuiano in tempesta” è “nient’altro che il mondo”. Così afferma, infatti, lo scrittore Elio Bartolini a Vito Moretti (pag. 96). “Tu lo chiami Abruzzo e per me, invece, ha nome Friuli; ma è la realtà che ognuno si ritrova dentro e che usa per celare o per mettere in mostra, per asserire o per disconoscere. Noi siamo – se ci pensi – la sostanza e la forma del nostro stesso tratto di terra che, dalla nascita, percorriamo con i piedi e con gli occhi”.
Tutto il libro è costellato da un richiamo, da un ritorno costante alla terra. E qui in particolare l’autore sembra giustificare e rivelare le ragioni del primo capitolo, il partire da San Vito: non si può prescindere, nel bene e nel male, dal proprio paese, dalla propria terra perché, appunto, “noi siamo la sostanza e la forma” di quello stesso angolo dove siamo nati e cresciuti, da dove siamo partiti e ci siamo formati. Sul valore identitario del proprio paese, Vito Moretti tornerà anche nel secondo capitolo, dove il discorso si farà più squisitamente letterario, anche se non perderà mai i suoi connotati più umani ed emozionali. Rispondendo a Raffaele Nigro che afferma “La letteratura è un destino, non una scelta… noi non scegliamo nulla, ma dobbiamo immancabilmente fare i conti con il luogo – la terra – che ci ha chiamati”, Vito Moretti ribatte che “quella terra dove ognuno si riconosce – quel mondo di nomi e di ricordi, talvolta di scompigli e di caute obbedienze – è il nostro paese, forse anche l’altrove, cioè la misura che viene a riempire fino all’ultima ruga l’ansia del tempo e delle navigazioni, la fantasia che ci dà l’ebbrezza delle mete, il candore dei desideri” (pag. 66). Per lui – io credo – valgono le parole del poeta Giuseppe Bonaviri: “Restare radicati alla propria identità è ritrovarsi nelle parole che ci fanno liberi e maturi ed è l’esperienza che predispone l’animo alle passioni più sagge”.
La terra, dunque, per Vito Moretti, è àncora ma è anche libertà, la terra non limita e non costringe, ma è il nostro sostrato, quindi è la misura con cui leggiamo la realtà, il respiro intenso dei giorni che ci parla di nostalgie ma anche di desideri. Dal luogo natìo lo scrittore muove poi i suoi passi verso un altrove fatto di luoghi, di esperienze e, soprattutto, di incontri. Entriamo dunque nel capitolo centrale, il secondo: qui troviamo incontri “storici” – potremmo dire – d’eccezione, non solo letterari con i protagonisti della cultura e della letteratura del ‘900: da Mario Luzi ad Alberto Moravia, da Giorgio Bassani a Maria Luisa Spaziani, da Giuseppe Bonaviri a Luciano Luisi, da Mario Pomilio a Piero Bigongiari e così via, Andrea Zanzotto, Alberto Bevilacqua, Cecilia Gatto Trocchi, Giovanni Raboni, e tanti altri; ma è originale e significativo che uno spazio importante sia dedicato anche agli incontri con i cantautori come, ad esempio, Lucio Dalla, o più in generale con la canzone d’autore in genere (Guccini, Finardi, Bertoli, Zero, Venditti), in un periodo in cui (anni ’70) la canzone d’autore “dava concretezza ad un’esigenza profonda di contenuto, recuperando la funzione comunicativa della parola, facendone racconto immediato, emozione, specchio di cronaca e di esistenza” (pagg. 38-39). In realtà il libro cita spesso le canzoni per accompagnare i pensieri dell’autore, o i suoi ricordi, o fatti storici rilevanti, confermando l’importanza e la dignità che l’autore concede alla musica e ai cantautori.
Nel racconto dei suoi incontri, Vito Moretti apre come delle finestre, degli squarci nel tempo, delineando dei quadri e consegnando al lettore dei ritratti particolarissimi dei personaggi che incontra, mettendone in luce non solo l’opera e il pensiero, ma anche e soprattutto il carattere e l’aspetto umano. Sono incontri che sollecitano riflessioni e interrogativi; sembra quasi che l’autore, nello scrivere, continui il confronto intellettuale col suo interlocutore o, comunque, che prenda spunto dalla stesura delle pagine per un’indagine esistenziale mai interrotta sulle ragioni della vita e della morte, del bene e del male, sul senso della poesia e, più in generale, della scrittura, sul chiaroscuro insito nelle azioni umane, sull'”intreccio interlocutorio e persino dialettico fra esistenza e destino” (pag. 94). Moretti, insomma, recupera il valore della letteratura come luogo per interrogarsi sul senso della storia, del tempo, della poesia, dei luoghi.
Un tratto caratteristico di Vito Moretti (che lui attribuisce al cantautore Francesco De Gregori) sembra quello di “fondere la politica (intesa nella sua declinazione più etica che partitica), le tematiche civili e quelle della storia con gli aspetti intimistici, privati e sentimentali del proprio universo”. Del resto, è evidente nelle opere del poeta e scrittore sanvitese la grande attenzione verso la realtà, verso i più deboli, verso le esistenze ai margini (“Il colore dei margini”), verso la giustizia sociale, l’onestà, verso l’umanità nel suo screziato complesso in cui Vito Moretti coglie e ravvisa sempre, però, la singolarità dell’individuo nella sua storia personale (Aeroporto di New York: “la folla d’ogni età e colore si faceva umanità e si apprestava a raggiungere i volti e i nomi che ciascuno recava nel proprio silenzio” pag. 141). Il poeta, lo scrittore, deve farsi carico di individuare gli aspetti e le varietà dell’esistenza quotidiana, il bello
e il brutto della storia, “scavare nel proprio intimo e mettere in relazione le cose che si vedono” con quelle che ordinariamente non si vedono “e che pure agiscono a determinare fisionomie e umori” (pag. 76). Solo così la voce del poeta può dirsi vera, autentica.
Infine, l’ultima parte ha all’inizio un sapore molto proustiano: la domanda di una giornalista ha sullo scrittore lo stesso effetto della madeleine su Proust, proiettando Moretti di nuovo indietro, tra le suggestioni e le tenerezze che ciascuno di noi porta nel cuore e che basta un niente a risvegliare. Dalla rievocazione del piccolo mondo sanvitese fatto di brezze, di ritagli di cielo e di bicchieri di cotto, parte una carrellata di avvenimenti nazionali e internazionali
che hanno segnato la storia geopolitica mondiale dagli anni sessanta alla fine del secolo scorso e che sembrano adombrare, però, dei cambiamenti gattopardeschi, il fallimento di tante utopie e un’amara disillusione di fondo. Il divenire, di cui Vito Moretti avverte in modo acuto lo scorrere inesorabile, si lenisce e si stempera con la coscienza e la conoscenza delle cose, con uno sguardo lungo sul passato e, soprattutto, trattenendo il più possibile con sé i segni di una vita, i luoghi, i paesaggi, i volti, le vicende. Meglio ancora se su una pagina bianca.
Nicoletta Fazio