Recensione al romanzo di Giovanni Capurso, “Il sentiero dei figli orfani” (Alter Ego Edizioni), apparsa sul quotidiano “La Città” di Teramo il 19 luglio 2019.

Sul filo di una memoria vivida, che si affaccia sull’estate del 1990, in un piccolo paesino della Lucania, San Fele, Giovanni Capurso restituisce uno spaccato intenso e nostalgico di una società agricola e di un piccolo mondo esiodeo, sospeso nel tempo: “A San Fele il ritmo ciclico della natura resisteva a ogni cambiamento: in molti ancora si svegliavano al canto del gallo e finivano il lavoro al crepuscolo. Questo suo essere fuori dalla storia e dagli eventi, più che una maledizione, dalla gente schiva del posto veniva considerata una virtù”. Il paese, adagiato “come una farfalla su un fiore”, insegna ai suoi abitanti il valore della lentezza, dell’operosità, del silenzio. Il pudore dei sentimenti, l’inviolabilità della natura. Anche Savino, il più piccolo della famiglia “Trentadue”, come sono soprannominati in paese i Chieco, respira l’atmosfera semplice e laboriosa di casa sua, conosce la felicità nelle corse a perdifiato con il suo migliore amico l’Anguilla (uno dei tanti riferimenti dell’autore a Cesare Pavese, presente anche nell’esergo iniziale) e nei “piccoli riti” delle loro “liturgie bucoliche”, in mezzo a una natura intatta e selvaggia, che è tutto il suo mondo. Un mondo i cui confini gli vanno già stretti e che non gli basterà più dopo aver conosciuto Adamo, il misterioso forestiero che viene dal nord Italia, bravo a realizzare barche in miniatura, e Miriam, la ragazza per la quale prova i suoi primi turbamenti amorosi. Agli occhi di Savino, che brama di raggiungere il mare, che non ha mai visto, entrambi rappresentano una rivelazione, un segno di evasione, di libertà. Il punto focale della narrazione ruota attorno alla perdita, alla mancanza, come la parola “orfani” nel titolo suggerisce. Ogni personaggio reca con sé una ferita, un’assenza. Anche la terra è lacerata dal distacco di chi è andato via. Per Savino la scomparsa della nonna costituisce il suo primo incontro con la morte, la prima, dolorosa occasione di riflessione e di crescita interiore. Lo sguardo del ragazzo, “principiante della vita” ma già sensibile e attento lettore della realtà, incomincia a cogliere in profondità le sfumature e il senso dell’esistere: “Quella notte fece salire in superficie cose che fino a quel momento mi sembravano scontate, o che forse non avevo mai capito davvero; per esempio quanto mia nonna, donna di fede e discreta, si fosse sempre fatta amare da tutti, senza mai lamentarsi di niente, perché guardava ogni evento come il segno tangibile della volontà divina”.

A ben vedere, l’intera narrazione si snoda, sulla scia delle indagini a cui la filosofia e la letteratura greca ci hanno abituato, come una ricerca della identità dell’uomo (il famoso γνῶθι σεαυτόν del tempio di Apollo a Delfi) dalla quale non può prescindere una riflessione sulla religione, sul Divino e sul senso dell’esistenza. Ogni personaggio interpreta e vive a modo proprio la relazione con l’Assoluto, anche se nessuno nella storia è mai completamente distante da un sentimento panico di Infinito, per cui “tutti noi apparteniamo a questa grande divinità di cui siamo una microscopica parte”. “Quando Dio parla” sostiene Adamo “fa mormorare un fiume, scuote le fronde di un albero, irrompe con la sua eco in un canneto, fa battere le ali di un uccello, e con il vento si struscia su un covone di grano. Tutto si muove in sincronia quando Dio spezza il fragore del silenzio”. Immagini di grande poesia, indissolubilmente legate a quella natura che rende San Fele un paesaggio paradisiaco e mitico, come mitica è quell’estate da adolescente di Savino (quale lettore, del resto, non ne ha almeno una conservata nel suo cuore?).

La luce, grande protagonista del romanzo, a seconda dell’intensità dilata e contrae pensieri, ore ed emozioni e contribuisce a delineare un’atmosfera spesso rarefatta, indistinta, onirica, che contrasta con il realismo della narrazione. Avviene così che, di tanto in tanto, si aprano nel dettato degli squarci suggestivi, che sfuggono alla logica corrente per collocarsi in una dimensione altra, quella del sogno, del magico, dell’intuizione, delle percezioni extrasensoriali. Il tempo sospeso e ancestrale di San Fele, ad esempio, soggetto al divenire e all’eterno ritorno “degli eventi naturali e dei riti collettivi”, viene misurato da Savino “in foglie che si facevano spazio sui rami o vorticavano nell’aria e ancora dai nove rintocchi delle campane che annunciavano il mattutino e dai ventuno tre ore prima del tramonto”. Tornano le antiche leggende, e con esse, nella sera, riappaiono al ragazzo gli spiriti che, da piccolo, gli pareva “si nascondessero tra gli anfratti del borgo”; e, infine, una misteriosa eco di infinite e indefinite risonanze proviene dai suoni della natura: “Mi disse cose del tipo che bisogna affezionarsi agli alberi, distinguerne le voci quando il vento ne scarmiglia i rami e le foglie… La loro voce cambia e ti avvisa – se hai imparato a capirla – che la tempesta sta arrivando o che le nuvole cederanno al sereno. La voce degli alberi vive nel vento come quella di ogni altro elemento della campagna…”.

Nicoletta Fazio

 

Giovanni Capurso