Nota critica di Nicoletta Fazio alla silloge poetica “Il buio, la neve” (Book Editore) di Giuseppe Rosato. Il testo, scritto come relazione per la presentazione del libro a Villa Sirena, è stato pubblicato il 15 marzo 2018, giorno stesso dell’incontro, sulle pagine culturali del quotidiano “La Città” di Teramo.

In questa sua ultima raccolta poetica, edita da Book editore ad ottobre 2017, Giuseppe Rosato consegna già al titolo l’indicazione di quello che sarà il nucleo essenziale del libro. Del resto, chi ha familiarità con la poesia di Rosato sa quanto, nella sua scrittura, il buio e la neve siano immagini ricorrenti e simboliche, amate dall’uomo oltre che dal poeta. I due bisillabi, buio e neve, vengono accostati e si trovano posti su un medesimo piano, sua una stessa ideale linea spaziale, sebbene separati da una virgola, suggerendo una sorta di connubio, di comunione, tra i due termini e tra le immagini che evocano. Un connubio ossimorico, fortemente antitetico e oppositivo, com’è, del resto, caratteristica del linguaggio poetico di Giuseppe Rosato. Il buio e la neve ci trasportano in due dimensioni apparentemente contrastanti e speculari, che potrebbero definirsi sostanze polimorfiche, entità infinite e inesauribili dense di significati, di profondità, di nomi, di volti (su tutti, quello dell’amatissima Tonia), di tempi, in un gioco continuo tra la memoria e il presente, tra una consolatoria rassegnazione e paradossali lampi di arguzia e ironia, tra il desiderio di sottrarsi alla scrittura e la necessità di dire, di dirsi, di prolungare, in sostanza, l’illusione, il sogno, l’inganno del vivere. Ennio Flaiano diceva che “la poesia è una vita di scorta” e sulla scia di questa convinzione va la scrittura di Rosato, “come se” afferma l’autore in una recente intervista rilasciata alla Rai “la poesia potesse offrire una via di fuga, un’alternativa alle angustie della quotidianità, e come se i ricordi potessero risarcire di una perdita, di un’assenza.” La prima parte della raccolta contiene poesie inedite, scritte tra il 2009 e il 2016; la seconda, invece, ripropone alcune liriche già pubblicate nel 2005 nel volumetto “L’inguardabile vero”, edito dalla casa editrice Tracce e dalla Fondazione PescarAbruzzo. Nonostante il libro abbia una struttura unitaria e omogenea, nella prima parte, che si può accostare per temi e stile a “Le cose dell’assenza” (Book, 2012), si nota una vena più intima e raccolta, resa tale dal registro confidenziale che l’autore adopera nel costruire una sorta di dialogo con la donna amata, un dialogo che, a tratti, si fa quasi sussurro. La parola poetica, pur mantenendo inalterata la sua profondità semantica e la sua ricerca esistenziale, indugia sulla familiarità del “tu”, teso a svolgere e a dispiegare un universo di ricordi, di attese e di racconti contenuto nel segmento ai cui estremi sono il poeta e la donna amata. La formula “da te a me…”, “da buio a buio”, evidenzia e individua perfettamente i due attori della comunicazione, sottolineando l’origine e la destinazione dell’azione, il punto di arrivo e quello di partenza, come se solo ciò che attraversa questo segmento ideale, questo cono di luce, avesse importanza, dovesse illuminarsi alla ricerca di una prospettiva di senso, per riaffiorare dagli abissi liquidi della memoria.

Per le poesie inedite riunite nella prima parte del volume si potrebbe parlare di “poesia della convergenza, della ricongiunzione”. Non a caso in questa prima parte può ravvisarsi una struttura circolare, nella quale è il mare, l’acqua, l’elemento che veicola e unisce l’inizio con la fine, insieme all’uso del verbo “convergere” e del sostantivo “riconiugazione”. L’abbraccio che prende forma “nel pulviscolo d’aria e di vento” o nella linea indefinita di un orizzonte autunnale, settembrino, rappresenta un prodigio dagli effetti composti, misurati, appena percettibili, se non fosse per l’acqua che si “discompatta” e il mare che si increspa. Emblematica è la lirica che apre la raccolta e che inizia con la congiunzione “e”, che pare richiamare e riagganciarsi a un discorso precedente, pregresso, un discorso che riguarda sia il lettore sia la donna amata. Ci troviamo alle soglie di un autunno lontano, quasi immaginifico, l’autunno delle favole, come in un sogno. L’uso frequente dell’imperfetto (dicevi, ci attendeva, non lo sapevamo, si apriva…) accresce e alimenta la sensazione di essere immersi in un tempo remoto, lontano, intangibile. Del resto, i versi di Giuseppe Rosato vivono di una tensione quasi atemporale, in una sospensione che è tregua dal transito della vita, dalla labilità, dalla precarietà dell’esistenza.

La seconda parte della raccolta, invece, mi pare si leghi a uno dei libri più rappresentativi dell’opera del poeta frentano, “L’inganno della luce” (edito sempre da Book nel 2002), ed è imperniata maggiormente sulla dicotomia luce/buio, verità/inganno. Il verso si fa più distaccato, più affilato nell’esposizione ragionata, lucida, implacabile, del pensiero. Le “facce innumerevoli” della luce, come scrive il poeta, sottendono “l’inganno del vero che in ognuna apparve sempre escludendo il volto del suo intero”. La luce è ambigua, è un crudele gioco d’abbagli, di inquieti barlumi e fosfeni di zanzottiana memoria, è “l’inguardabile vero” dall’ingannevole sembianza, contro un buio “unico e sicuro”, “unico e vero”, vuoto e senza promesse, perciò sincero. Un divario inconciliabile, che restituisce una riflessione e un pensiero disincantato e, a tratti, distaccato, sull’esistenza e sulla capacità dell’uomo di pervenire alla verità, alla conoscenza: “la babele”, allora, diventa “salvezza dal vano/ accanirsi a cercare il passaggio/ o la scintilla almeno, il fosfene/che incrini il grande buio.” In tutta la raccolta, comunque, un paesaggio privo di ogni illusoria metafisica compone un quadro intimo, ma lucido, nel quale solo la memoria e la poesia rimarginano i lembi di un’intera esistenza, salvano “trasparenze d’altre vite”, inverni e stagioni lontani nel tempo e, soprattutto, il volto della donna amata. Un volto che – si badi bene – non compare mai (“il volto che non appare”), lasciando il posto, attraverso la figura retorica della sineddoche, agli occhi di lei, ora presenti, ora assenti, che permettono al poeta di non interrompere mai il contatto, l’amorosa corrispondenza, con Tonia. E, se l’amore “non bastò a farci salvi”, se l’amore non può opporsi a quello che il poeta chiama “lo scandalo dell’abbandono”, resta, però, “sempre un inverno/sepolto nella neve” e “un barlume di quel bianco vive/ di stagione in stagione.” La voce del poeta sembra votata alla rinuncia, la sfiducia lascia il posto alla resa, alla chiusura assoluta, sottolineata dal refrain dei sostantivi buio e assenza: “Da buio a buio le parole che non scrivo/perché dal foglio non ne affiori/una scaglia di luce, in questo buio/l’assenza resti assenza…”; il buio è “inconsutile”, compatto, denso, senza cuciture, chiuso a ogni estrema possibilità di fiducia nell’esistenza e nell’aldilà, mentre la luce si è assottigliata ancora di più, ridotta ormai a “estrema reliquia”, a “riverbero”, “barlume”, “luccichio”, fino a essere definita “malaluce”, a fronte di un sole “che non ha luce e non riscalda.”

L’insanabile dicotomia tra la vita e la morte, tra vivi e morti, in questa raccolta si inasprisce e si esaspera. L’incomunicabilità tra i due mondi è netta, inequivocabile, come ci ricorda la reiterazione dell’avverbio “qui”, che costella spesso i versi, a sottolineare l’hic et nunc della condizione umana, la sua separatezza, e quel divario che non si colma, “la distanza sonora” che di notte ancor di più “si compatta”: “a loro/ nessun varco concede/ la notte che per sempre ne distanzia.” La parola-sonda che Rosato muove a esplorare i territori della memoria e della poesia si arresta davanti alla volontà del poeta di sospenderla, di tacere, di non perpetrare alcuna illusione “perché dal foglio non ne affiori/una scaglia di luce”. Ed ecco, allora, che le parole, “come disgranate/da una ruota dentata”, si fanno sillabe e le sillabe silenzio, un silenzio candido e accecante come la neve, intatto, insonoro, sacro e non vinto come le impotenti, “avvinte” e “già vinte parole”.

Nicoletta Fazio