Nota critica di Marcello Marciani al libro di poesie in dialetto lancianese “Bbendétte stu dijalètte” di Giuseppe Rosato.

In tutta la lunga, vasta produzione letteraria di Giuseppe Rosato, si sono da sempre evidenziati due grossi filoni, due approcci diversi ad esprimere il mondo e le sue sfaccettate articolazioni: la vena concettuale/filosofico/affettiva, che spazia dall’indignazione civile allo struggimento della mancanza, dall’inquietudine metafisica alla tenerezza nostalgica per condizioni e affetti scomparsi, pervasa da una malinconia e da un disagio esistenziale che avvolge tutti gli aspetti del vivere; e la vena ironica, o sarcastica e beffarda, verso ingiustizie storture e piccinerie sociali, spesso concentrata in piccoli libri dal gusto sapido o addirittura comico, in cui lo sguardo sornione dell’antico vignettista traduce i suoi segni caustici in versi irriverenti e in battute fulminanti.
Queste due anime della scrittura di Rosato, la seria e la faceta per così dire e semplificare, sono andate avanti per anni parallelamente, ognuna seguendo il suo percorso e, anche se spesso si sono incontrate in uno stesso libro, era sempre l’una a prevalere sull’altra e a conferire il carattere all’opera.
Ma con Bbdendétte stu dijalètte, l’ultima raccolta di poesie in dialetto frentano dello scrittore lancianese, accade qualcosa di diverso, perché con un equilibrio impareggiabile l’autore riesce a conciliare queste sue due anime poetiche donando ad ognuna una rilevanza, espressiva ed etica, di grande spessore, per cui l’opera risulta “leggera” e “comica” in molte pagine e dolente e amara in altre, ma nella sostanza ironia e malinconia, comico e tragico si amalgano grazie ad una scrittura che riesce ad esprimere tutta la variegata complessità dell’esperienza umana. Il titolo rimanda all’importanza fondamentale del dialetto, benedetto sia pure ironicamente, veicolo linguistico senza il quale tutta l’opera non esisterebbe. Potrebbe sembrare questa una precisazione ovvia, in quanto ogni forma espressiva esiste in quanto linguaggio, ma qui il discorso è proprio metalinguistico, all’interno della scelta dialettale e del suo declinarsi in parlata, mezzo di aggregazione di una comunità e, col tempo, suo archivio memoriale. Il poeta non solo parla per mezzo del suo dialetto lancianese, ma “viene parlato” da esso, si lascia attraversare da questa lingua, diventa uno dei tanti attori che abitano un mondo di tradizioni, proverbi, sentenze e motti dialettali restituiti, grazie all’energia del verso, alla loro ruspante vitalità, presta il suo io alle innumerevoli voci, ruvide o bonarie, di un coro, anche se nei testi più personali si distacca il suo timbro pensoso di solista. C’è, in questo scavare nella parlata dei padri, la ricerca di termini ed espressioni desueti, dimenticati, che affiorano alla memoria come improvvisi soprassalti sonori: esempi fra i tanti l’aggettivo vedellègne, che indica le budella fradice, o lu talorne, che è il piagnucolìo insistente, o l’ova hallàte (uovo gallato), che stimola un’acuta riflessione sulle antiche parole affondate, perdute nel tempo odierno che si gonfia ogni giorno di altri termini nuovi, che affollano l’orecchio ma non trovano posto nella mente. E pertanto il mondo cambia anche perché cambiano le parole per dirlo, ma questa considerazione, derivata dalla fenomenologia linguistica, si spoglia di ogni algida concettualità per declinarsi, nel verso di Rosato, in toccante e coinvolgente poesia. Tuttavia la ricerca lessicale non è soltanto archeologica, non si ferma al recupero dell’antica parlata, ma ingloba voci mutuate dall’odierno lessico tecnologico o finanziario, traducendole in lancianese con esiti stranianti e a volte esilaranti: si pensi all’amplefònne, versione abruzzese del’apparecchio acustico Amplifon, o al telefono cordeless che diventa curdelèsse, che rima ironicamente con port’apprèsse, o agli indici azionari lu Mibbe e lu Nasdàcche. Ma la volontà di adattare una lingua antica e sedimentata alle esigenze invadenti del presente genera un sovrappiù di amara ironia, una sorta di inappartenenza ai rituali e alle manie di un tessuto sociale che appare sempre più alienante, intollerante e incattivito. Se ne ha la prova in uno degli ultimi testi della raccolta, in cui la violenza tutta solo verbale di certe passate e rudi imprecazioni lancianesi non può trovare confronto nella realtà ben più crudele e ferina delle cronache attuali:

Mò t’allènte nu pacche, na sardelle,
nu scaffatone… O vû nu cazzuttòne?
Na vrettelìne, na salechejàte,
nu liscebbùsse, nu palijatòne,
na vattènte… Aspìtte, ca mò sigge,
mò ci-abbùsche, te ’n tòmme,
te facce nove-nove! Mò t’ammòlle
nu vangatòne che te fa’ vutà’
lu monne, che te fa’…

Quanta storie, na vote, lite-e-sciarre
e strille e quanta chiacchiere a lu vente
tutte le jurne, ammonte pe’ le ruve,
a lu spiazzètte, o dentr’a nu purtone.
Ma gna jèv’a fenì’? Foche de paje
che sbarejé. Mò cchiù! Tra patre, fije,
mòje, marite, ugne chi àtre, mò
n’se spreche na parole:
a-quanta pije e te s’a n-òme accìde.*

 

Marcello Marciani

* Da Bbendétte stu dijalette, pag. 49

Marcello Marciani presenta “Bbendétte stu dijalette” di Giuseppe Rosato a Villa Sirena il 22 febbraio 2020. (foto di Scribo – tutti i diritti riservati)

 

Giuseppe Rosato e Marcello Marciani a Castel Frentano, il 6 agosto 2019, in occasione del Premio “Di Loreto – Liberati”. (Foto di Scribo – tutti i diritti riservati)

FOCUS

DUE GRANDI PROTAGONISTI DELLA CULTURA ABRUZZESE CONTEMPORANEA

Giuseppe Rosato (Lanciano, 14 maggio 1932) ha insegnato Lettere e lavorato per la RAI, nei servizi culturali e nei programmi, e per riviste e terze pagine di quotidiani. Ha pubblicato libri di versi in lingua e in dialetto (a incominciare da “L’acqua felice”, Schwarz, Milano 1957), di narrativa, prose brevi, aforismi, oltre ad operine satiriche, epigrammatiche, parodistiche. Ha condiretto le riviste Dimensioni (1958-1974) e Questarte (1977-1986). Nel 1966 ha fondato con Ottaviano Giannangeli il Premio Nazionale “Lanciano” (poi “Mario Sansone”) di poesia dialettale. E’ stato segretario generale del Premio Flaiano di Pescara, dall’anno della sua fondazione fino al 1991. Ha vinto prestigiosi premi letterari, tra i quali il “Carducci” (1960) e il “Pascoli” (2010). Nel 2010, per la sua attività letteraria e culturale, è stato insignito del “Frentano d’Oro”.

Marcello Marciani è nato e risiede a Lanciano (CH). Ha pubblicato: “Silenzio e frenesia” (Quaderni di “Rivista Abruzzese”, Lanciano 1974), “L’aria al confino” (Messapo, Siena-Roma 1983), “Body movements”, con traduzione inglese a fronte di Amelia Rosselli (Gradiva Publications, Stony Brook-New York 1988), “Caccia alla lepre” (Moby DicK, Faenza 1995), “Per sensi e tempi” (Book, Castelmaggiore 2003), “Nel mare della stanza” (LietoColle, Faloppio 2006), “La corona dei mesi” (LietoColle,Faloppio 2012), “Rasulanne” (Cofine, Roma 2012), “Monologhi da specchio” (Robin, Torino 2017) e, infine, “Revuçégne”/”Rovistamenti” (Puntoacapo, Alessandria 2019). Suoi testi in dialetto frentano sono stati eseguiti negli spettacoli Mar’addó’ (1998-1999) e Rasulanne (2008/ 2012), dove ha partecipato anche come attore. Dal 1988 al 2008 è stato segretario organizzatore del Premio Nazionale di Poesia in Dialetto “Lanciano-Mario Sansone”. Ha ricevuto diversi premi, fra cui: Gabicce Mare, Matacotta, Nelle terre dei Pallavicino, Noventa-Pascutto, Pandolfo, Penne, Ischitella-Pietro Giannone, Salva la tua lingua locale, Giuseppe Malattia della Vallata, Poesia Onesta. È presente in riviste e antologie italiane e statunitensi con componimenti in italiano e in dialetto.